martedì 24 febbraio 2009

Grandi infrastrutture di crisi


Marco Cedolin
Pubblicato su Terranauta
Posti di fronte alle conseguenze determinate dalla crisi economica che sta generando una sempre più pesante recessione, il crollo dell’occupazione ed il ridimensionamento dei fatturati delle imprese, tutti i governi, simili ai cerusici di un tempo, stanno tentando di spacciare come miracolosi una serie di rimedi che anziché salvare il “paziente” potrebbero sortire come unica conseguenza quella di aggravare ulteriormente lo stato della malattia. Unitamente al finanziamento (spesso a fondo perduto) di banche ed aziende private, attraverso cospicue iniezioni di denaro pubblico direttamente nelle loro casse, un’altra delle “cure” maggiormente gradita tanto alla politica quanto all’imprenditoria sembra essere costituita dall’investimento di enormi quantità di denaro dei contribuenti, per la costruzione di grandi infrastrutture.

In Italia, Silvio Berlusconi, distintosi in questi giorni per le proprie invettive contro il “fanatismo ambientalista”nel corso di un’intervista al quotidiano francese Le Figaro, durante la quale ha promesso la realizzazione in tempi brevi del TAV Torino - Lione, sembra avere inserito la costruzione delle grandi infrastrutture fra le misure prioritarie attraverso le quali combattere la crisi economica. Già lo scorso 9 febbraio in occasione dell’inaugurazione del passante di Mestre, lo stesso Berlusconi aveva infatti promesso uno stanziamento per la costruzione di grandi opere pari a 16.6 miliardi di euro, facente parte di un investimento complessivo di 125 miliardi di euro che il governo intenderebbe stanziare per realizzare oltre 100 grandi infrastrutture. Grandi opere che spaziano dal ponte sullo Stretto di Messina, ritenuto prioritario dal cavaliere, alla costruzione di nuove tratte TAV, di nuove autostrade, centrali nucleari, rigassificatori, centrali a carbone e turbogas, inceneritori e molte altre infrastrutture cementizie. Lo scopo dell’investimento, oltre alla riduzione del gap che ci separerebbe dagli altri paesi europei, sarebbe nelle intenzioni del Cavaliere quello di risollevare le sorti della disastrata economia italiana e creare nuova occupazione per fare fronte alla continua emorragia di posti di lavoro.

Non si può naturalmente evitare di domandarsi in funzione di quale cortocircuito logico si arrivi a ritenere che la decisione di destinare una così ingente quantità di risorse economiche pubbliche (con il conseguente appesantimento del debito pubblico del paese) alla costruzione di grandi infrastrutture di dubbia utilità, possa costituire un elemento in grado di rilanciare la nostra economia. Tanto meno alla luce delle ultime manovre finanziarie che hanno “tagliato” i finanziamenti a settori nevralgici e ad alta incidenza occupazionale come la salute e l’istruzione. Occupazione e grandi opere non sono infatti mai state in sintonia, dal momento che i miliardi investiti in grandi infrastrutture risultano in assoluto quelli in grado d’ingenerare la minore ricaduta in termini occupazionali. A questo riguardo ritengo oltremodo interessante osservare l’opinione del prof. Marco Ponti*, esperto di fama mondiale che certo non può essere tacciato di simpatie ambientaliste o posizioni di contrarietà nei confronti del progresso. Marco Ponti ad una mia precisa domanda nell’ambito di un'intervista sul tema dell'alta velocità ferroviaria :

I promotori dell’Alta velocità (sia pubblici che privati) affermano che la costruzione delle nuove tratte può costituire un volano in grado d’incrementare l’occupazione all’interno dei territori attraversati dai progetti. Davvero la costruzione di grandi infrastrutture, è in grado di creare “posti di lavoro” in ambito locale? E la prospettiva occupazionale le sembra in grado di giustificare l’investimento di decine di miliardi di euro di denaro pubblico in grandi infrastrutture come il TAV?

Rispondeva per inciso:
Questo argomento appare davvero debolissimo. Si tratta di opere ad alta intensità di capitale, non di lavoro (basta visitare un cantiere della TAV). Ma soprattutto, il confronto va fatto con spesa pubblica in altri settori, per loro natura ad alta intensità di lavoro, come l’assistenza agli anziani, o il recupero edilizio ecc. Inoltre si tratta di occupazione temporanea, con forti picchi, che poi scompare alla chiusura dei cantieri, con tutte le conseguenze sociali che questo comporta. Il motivo vero sembra essere invece quello di trasferire soldi pubblici all’industria italiana, visto che negli appalti la concorrenza funziona pochissimo.

Anche di fronte alla gravissima crisi economica che sta mettendo a repentaglio in primo luogo la sopravvivenza economica delle famiglie italiane, la politica si manifesta dunque totalmente incapace di operare qualsiasi riflessione avente per oggetto il modello di sviluppo della crescita infinita che ci ha condotti ormai ben oltre la soglia del baratro, preoccupandosi esclusivamente di sfruttare questa “opportunità” per elargire sotto svariate forme ogni genere di prebenda alla grande finanza e alla grande imprenditoria.
* Marco Ponti insegna Economia dei trasporti, prima a Venezia, e da quattro anni al Politecnico di Milano. Ha svolto attività di consulenza per la Banca Mondiale, il ministero dei Trasporti, le Ferrovie dello Stato e il ministero del Tesoro. Ha partecipato come esperto all’elaborazione del primo e del secondo Piano Generale dei Trasporti. Svolge attività di ricerca nell’ambito dei modelli trasporti-territorio, di analisi di fattibilità economica e finanziaria dei progetti (versioni avanzate dell'analisi costi-benefici), regolazione economica e liberalizzazione del settore (tecniche di gara, regole di accesso alle infrastrutture ecc.) e di "public choice".

2 commenti:

Mattia Babini ha detto...

Forse si generalizza un po' troppo. Si parla di infrastrutture ragionando però solo sulle grandi opere (e spesso anche gonfiate nei costi).
Forse bisognerebbe anche pensare alle sfaccettature del problema, alle soluzioni "meno peggiori"..
Durante la crisi del '29 in America ci si dedicò effettivamente alla creazione di infrastrutture, capaci alla fine della crisi (durata quasi 10 anni) di fare da rampa di lancio all'economia in ripresa. In più sono state occasione di occupazione nel periodo più critico. Certo, non si può considerarla un'occupazione definitiva, ma i posti di lavoro possono essere riposizionabili. Parlo da lavoratore: opero da dipendente nel campo immobiliare (diciamo "piccolo-residenziale") e non mi sembra che questo settore sia ora nel momento più florido. Ma ho già messo in conto che se la situazione peggiora io possa essere lasciato a casa.. Non devo certo andare a lamentarmi con il Governo se perderò il lavoro. Vorrà dire che dovrò adoperarmi per trovarne un'altro. E se l'unica (o una delle poche) possibilità che mi si presenteranno sarà quella di diventare operaio per la costruzione di una strada, anche con la mia qualifica di geometra dovrò accontentarmi se voglio continuare a portare dei soldi a casa..
Questo non significa che anche gli altri settori d'investimento siano sbagliati e le infrastrutture siano l'unica scelta da fare. Bisogna ben bilanciare le manovre per il rilancio.
Partendo da questo punto però il problema diventano le tempistiche. Ipotizzando una possibile serie di opere effettivamente utili all'economia (del tipo: rinforzamento della rete ferroviaria per ridurre i trasporto merci su ruota, miglioramento dei sistemi di distribuzione dell'energia che renderebbe più efficienti le centrali già esistenti evitando forse la costruzione di nuove, rifacimento/manutenzione delle reti stradali, ecc..), con il sistema che si è instaurato (progetti preliminari, impatti ambientali, e temporeggiamenti vari..) si arriverebbe all'attuazione che la crisi è finita da un pezzo!
Mancano le personalità, e forse anche le competenze, per affrontare un tale discorso in un clima di urgenza.
Poi per quanto riguarda le "grandi opere pubbliche" son d'accordo con lei, che son sicuro conosce meglio di me il marcio che c'è all'interno..

marco cedolin ha detto...

Gentile Mattia,
condivido buona parte del suo pensiero, dal momento che le riflessioni da lei portate mi sembrano logiche e sensate.
Partendo dal presupposto che rispetto al 29 il problema ambientale si è profondamente acuito e oggi occorre prestare estrema attenzione ad evitare ulteriore consumo di suolo, molte sarebbero le opere (grandi e piccole)di cui il paese necessita.
Oltre a quelle già citate da lei potremmo aggiungere la ristrutturazione degli edifici pubblici (penso innanzitutto alle scuole) pericolanti, la ristrutturazione degli edifici dei centri storici (e non solo)secondo criteri di efficienza energetica, il rifacimento degli acquedotti laddove perdono come un colabrodo e una miriade di altri interventi.

Tutte opere che però sarebbero distribuite a pioggia sul territorio e non focalizzate in pochi enormi "cantieri" dove i grandi poteri finanziari e imprenditoriali riescono più facilmente a monopolizzare i grandi profitti.
Il fulcro di tutto è poi la totale mancanza della cultura di "opera utile" testimoniata da un serio studio dei costi/benefici dell'infrastruttura che in Italia praticamente non esiste. Basti pensare che lo studio dei costi/benefici da noi viene redatto a cura del preponente dell'opera che per forze di cose finirà per sottostimare i primi ed enfatizzare i secondi.
Il denaro pubblico viene così gettato nella spazzatura di grandi opere costosissime e totalmente inutili, come il TAV, il MOSE, i megainceneritori ecc. anzichè destinato a quelle che realmente servirebbero e oltretutto potrebbero generare occupazione.

Grazie per il commento
Marco