Marco Cedolin
L'inverno è alle nostre spalle, così come sono entrate a far parte del novero dei ricordi le notti passate all'addiaccio nella libera Repubblica di Venaus, le cariche della polizia e la commovente mobilitazione popolare che ha di fatto sancito come sia impossibile procedere alla costruzione di un'infrastruttura con il solo ausilio dei mezzi blindati e dei manganelli.
Abbiamo attraversato prima la "tregua olimpica" poi quella elettorale, per giungere infine in quel limbo dove si attende che il nuovo governo inizi a farsi carico dei reali problemi del paese.
Quello dell'Alta Velocità ferroviaria è uno dei grandi problemi da risolvere, così come quelli legati a molti altri temi scottanti quali il precariato e la sperequazione sociale. Ma contrariamente a quanto comunemente si crede i termini del problema riguardano la creazione di una truffa quale quella del "Sistema TAV" e non le proteste degli abitanti della Valle di Susa che semmai hanno avuto il merito di creare uno spiraglio, tramite la loro lotta, nel muro di gomma che da oltre 15 anni avvolge in maniera omertosa tutte le vicende legate all'alta velocità italiana.
Il sistema TAV è un vero e proprio museo degli orrori, costruito nel tempo con la connivenza di tutte le forze politiche, in grado di far scolorire al suo confronto tutti i più grandi scandali della nostra storia, tangentopoli compresa.
Nel 2009 (fra soli 3 anni) i contribuenti italiani inizieranno a pagare il conto di circa 1000 km. d'infrastrutture ferroviarie per i treni ad Alta velocità/capacità e si tratterà di un conto nell'ordine degli 80 miliardi di euro. Un conto che peserà per circa 2,3 miliardi di euro a finanziaria, portando le nostre disastrate finanze ben oltre il rapporto deficit/pil impostoci dall'Unione Europea.
Questi 1000 km. d'infrastrutture ferroviarie (in larga parte già oggi completati o in fase di completamento) serviranno per trasportare merci e passeggeri che oggi non esistono per mezzo di treni che probabilmente non esisteranno mai e saranno responsabili d’impatti ambientali devastanti in alcune zone (il Mugello su tutte) fra le più belle del nostro paese.
Questi 1000 km. di linea ferroviaria il cui costo medio/km risulterà il più caro d’Europa dovrebbero secondo le parole dei progettisti essere sfruttate sia da velocissimi treni passeggeri ad alta velocità che da pesantissimi treni merci ad alta capacità, ma nessun paese al mondo adotta un simile sistema “misto” che richiederebbe costi e tempi di manutenzione notevolissimi.
Questi 1000 km. d’infrastruttura non rispondono a nessuna esigenza reale del nostro paese (le cui ferrovie tradizionali sono ormai al collasso per mancanza d’investimenti) e non esiste alcuna possibilità concreta che l’investimento si manifesti in futuro remunerativo.
Questi 1000 km. sono il vero dramma con il quale il nuovo governo dovrà giocoforza fare i conti, trovandosi di fronte ad un’opera materialmente esistente, costosissima e priva di una destinazione d’uso che risponda alle più elementari logiche trasportistiche ed economiche.
Nonostante l’orrore sia già presente davanti ai nostri occhi e si prepari a risucchiare quei pochi spiccioli che ancora allignano nelle nostre tasche, tutta la politica continua a dissertare del “problema TAV” riconducendolo alla risolutezza con la quale gli abitanti della Val Susa hanno deciso d’impedire che si faccia scempio anche del loro territorio, nel tentativo di raddoppiare la dimensione dell’orrore, attraverso nuovi centinaia di km. d’infrastrutture costosissime, inutili e devastanti per l’ambiente e coloro che lo abitano.
Per affrontare il “problema TAV” non servono Osservatori e tavoli di confronto, non servono compensazioni e tentativi d’inciucio, non serve aggrapparsi al mito dell’Europa, (che nel 2009 probabilmente ci caccerà a calci) a fantomatiche creazioni di fantasia quali il Corridoio5, a roboanti paroloni quali “infrastruttura strategica” e “necessità di sviluppo”.
Per affrontare il “problema TAV” occorre guardarlo in faccia e prendere coscienza del fatto che si tratta di un mostro esistente che già avvelena il nostro territorio e fra soli 3 anni ci porterà a ripercorrere la triste esperienza dell’Argentina.
Il neonato governo Prodi che sta diventando operativo in questi giorni si trova dinanzi ad un bivio importante, nonostante il passato del nuovo Presidente del Consiglio in tema di grandi opere non sia proprio adamantino. Dovrà decidere se continuare pedissequamente a percorrere la strada dell’asservimento della politica agli interessi dei grandi poteri economico/finanziari, rimettendo il futuro di tutti noi fra le mani del farsesco “Osservatorio Virano” perpetuando il “Sistema TAV” fino a quando tutta l’architettura non esploderà creando uno scandalo senza precedenti, oppure abbandonare fin da subito ogni velleità legata a nuove tratte dell’alta velocità ferroviaria, istituendo immediatamente una Commissione d’inchiesta su quelle già esistenti, tentando almeno di limitare i danni e recuperare un minimo di quella credibilità che ormai da troppo tempo al mondo politico più non appartiene.
martedì 23 maggio 2006
mercoledì 10 maggio 2006
Abbraccio nucleare
Marco Cedolin
Gorge W. Bush ha recentemente manifestato la propria volontà d’investire nel nucleare, considerando quella atomica una fonte energetica sostanzialmente sicura e pulita nella quale occorre “credere” e sulla stessa linea di pensiero sembra essere schierato anche il Presidente russo Vladimir Putin.
Quello dell’energia sta diventando sempre più uno dei temi focali intorno al quale si concentrano le attenzioni di tutti coloro (esperti e non) che analizzano le prospettive potenziali del nostro Paese in termini di sviluppo, crescita economica e competitività industriale. E’ opinione diffusa di una parte del mondo politico e scientifico che la mancata ripresa economica italiana sia da imputarsi al profondo gap energetico che ci separa dal resto dei paesi “sviluppati” e che questo gap sia in larga parte determinato dalla scelta operata nel 1987 dal popolo italiano di rinunciare allo sfruttamento dell’energia nucleare. Al tempo stesso a Saluggia, un piccolo paese di circa 4000 anime, sprofondato nelle prime propaggini della pianura padana fra Torino e Vercelli, la popolazione ed un gran numero di esperti ed associazioni ambientaliste, protestano contro la decisione di trasformare il comune in una sorta di discarica a tempo indeterminato per le scorie radioattive italiane, risalenti in larga parte al breve periodo di funzionamento delle centrali nucleari nostrane, e nelle falde acquifere della zona sono stati riscontrati segnali di radioattività.
Le scorie radioattive rappresentano un argomento talmente scottante per tutti i paesi industrializzati che producono (o come l’Italia hanno prodotto) energia tramite l’uso del nucleare, da far si che ogni notizia riguardo la loro presenza e le complesse metodiche concernenti il loro smaltimento, venga puntualmente epurata dal palinsesto dei media e relegata nel novero di quelle informazioni che devono essere sottaciute, affogate nel silenzio, soffocate nell’omertà mediatica. Le scorie nucleari sono il vero tallone d’Achille di una fonte di energia come quella atomica che spesso viene presentata all’opinione pubblica come sostanzialmente “pulita” ed economicamente molto conveniente. La pericolosità delle scorie e gli esorbitanti costi inerenti al loro stoccaggio (di smaltimento in realtà si può parlare solo impropriamente) costituiscono la prova prima di come fra le fonti energetiche il nucleare sia, contrariamente a quanto espresso dalla propaganda, di gran lunga la più devastante. Tanto dal punto di vista dell’inquinamento ambientale e dei rischi per la salute, quanto da quello della resa economica che risulta scarsissima qualora si quantifichino (e finora si è evitato di farlo) i costi derivanti dall’intera vita delle centrali fino alla loro dismissione e dalla messa in sicurezza (o presunta tale) dell’enorme quantità di rifiuti radioattivi prodotti nel corso dell’intero ciclo.
Se oggi a livello mondiale la produzione di energia tramite il nucleare, nonostante l’incidente di Cernobyl, gode ancora di un certo credito e di una patente di convenienza economica fra le fonti energetiche esistenti, lo si deve solamente alla profonda opera di mistificazione messa in atto dai fautori dell’atomo che sono soliti nascondere sotto il “tappeto” il problema delle scorie radioattive, evitando di contabilizzare i costi della loro gestione presente e futura. Costi che in presenza di un serio e consapevole trattamento delle scorie in funzione della loro ferale pericolosità, avrebbero già da tempo decretato la morte di ogni programma energetico basato sul nucleare.
Le scorie nucleari sono derivate dal combustibile esausto originatisi all’interno del reattore nucleare nel corso dell’esercizio, ma anche dagli scarti di lavorazione e dai rottami metallici. Sono molte le categorie nelle quali vengono suddivise le scorie nucleari e sostanzialmente dipendono dal loro stato, solido, liquido o gassoso, dal potenziale di radioattività in esse contenuto e dalla durata nel tempo della loro pericolosità. Sostanzialmente i rifiuti radioattivi si dividono in tre gruppi: Le scorie a bassa attività costituite da carta, stracci, indumenti, guanti, soprascarpe, filtri liquidi, derivanti oltre che dalle installazioni nucleari anche dagli ospedali , dalle industrie e dai laboratori di ricerca. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 200 m³.
Le scorie a media attività, costituite dagli scarti di lavorazione, dai rottami metallici, dai liquidi, fanghi e dalle resine esaurite, derivanti principalmente dalle centrali nucleari, dagli impianti di riprocessamento e dai centri di ricerca. Un tipico reattore nucleare ne produce circa 100 m³ l’anno.
Le scorie ad alta attività, costituite dal combustibile nucleare irraggiato e dalle scorie primarie del riprocessamento, derivanti unicamente dalle centrali nucleari e dagli impianti di riprocessamento. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 30 tonnellate che corrispondono una volta riprocessate a 4 m³ di materiale vetrificato.
Le scorie a bassa e media attività resteranno pericolose per alcune centinaia d’anni (circa 300) quelle ad alta attività, che costituiscono solo il 3% del volume totale ma rappresentano da sole il 95% della radioattività complessiva, manterranno la loro carica mortale per molte migliaia di anni (fino a 250.000 anni).
Stiamo perciò parlando di periodi estremamente significativi sull’asse temporale, che vanno molto al di là non solo dell’arco di una vita umana, ma anche della possibile durata di una “civiltà” e perfino della storia dell’esistenza umana così come noi la conosciamo. Questi dati dovrebbero bastare essi soli a darci la dimensione dell’incommensurabile grandezza del problema con il quale ci stiamo confrontando e dell’assoluta impossibilità della tecnologia scientifica attuale (e con tutta probabilità anche futura) di smaltire in una qualche maniera l’enorme carico di materiale radioattivo che anno dopo anno si sta accumulando come conseguenza dell’attività delle oltre 400 centrali nucleari disseminate sul pianeta. Ogni anno queste centrali, presenti in 31 nazioni producono migliaia di tonnellate di scorie, ogni anno gli Stati Uniti producono 2300 tonnellate di rifiuti radioattivi e nella sola Francia si produce una quantità di nuove scorie pari a tutte quelle presenti in Italia.
Nei paesi membri della IAEA sono attivi oltre 70 depositi definitivi per rifiuti nucleari a bassa radioattività (circa 300 anni) una dozzina sono già stati chiusi, una decina stanno per chiudere, almeno 20 sono in fase di costruzione e molti altri sono in fase di progettazione. La maggior parte di essi (circa il 90%) sono costruiti in superficie e costituiti da trincee, tumuli, silos e sarcofaghi di calcestruzzo, volti a garantirne la conservazione in tutte le condizioni prevedibili. Il restante 10% è costituito da depositi posti in cavità sotterranee o in formazioni geologiche profonde. A garanzia della sicurezza di tali depositi sono state adottate barriere artificiali più o meno complesse (a seconda della rigidità del clima e delle caratteristiche del territorio) e sistemi di monitoraggio ambientale estesi oltre che al deposito anche alle aree circostanti. Appare comunque evidente come sia un esercizio sillabico privo di senso parlare di sicurezza facendo riferimento ad un periodo temporale di 300 anni. Anche nel caso (non sempre probabile) di una perfetta tenuta delle strutture per tutto l’arco di tempo, subentrerebbe infatti l’altissimo rischio di eventi imponderabili quali attentati terroristici, guerre, terremoti, alluvioni ed incidenti di vario genere, la cui possibilità in un periodo così lungo risulta tutt’altro che remota.
I depositi definitivi esistenti nel mondo riguardano esclusivamente i rifiuti nucleari a bassa radioattività e viene spontaneo domandarsi cosa sia stato fatto per quanto concerne le scorie ad alta radioattività, minori quantitativamente ma enormemente più pericolose in quanto fonti di radiazioni per decine di migliaia di anni, fino a 250.000 anni. In realtà per mettere in sicurezza i rifiuti nucleari ad alta radioattività non è stato fatto assolutamente nulla, o meglio tutto il gotha della tecnologia mondiale ha dimostrato di non avere assolutamente né i mezzi né tanto meno le conoscenze tecnico/scientifiche per affrontare un problema che travalica di gran lunga le capacità operative dell’essere umano, qualunque siano le sue competenze tecniche. Rapportarsi con periodi di tempo il cui ordine è quello delle ere geologiche significa abbandonare ogni stilla di realismo, per rifugiarsi fra le pieghe dell’utopia, dell’incoscienza e della pazzia. Nulla e nessuno potrà mai prevedere le mutazioni di ogni genere che riguarderanno il pianeta nei prossimi 100/200 mila anni, né individuare luoghi o spazi adatti a stipare in sicurezza le scorie ad alta radioattività in un futuro tanto lontano.
Ciò nonostante, almeno virtualmente, alcune ipotesi sono state prese in considerazione. Una delle più realistiche consiste nel depositare i rifiuti radioattivi dentro formazioni geologiche naturali, profonde centinaia o migliaia di metri. Tale soluzione, che potrebbe avere un senso per quanto concerne le scorie a bassa radioattività, ne diviene priva se riferita ai rifiuti altamente radioattivi, in quanto durante svariate decine di migliaia di anni anche la conformazione di grotte e caverne è per forza di cose destinata a mutare radicalmente. Fra le opinioni maggiormente condivise a livello scientifico vi è anche quella che ventila il ricorso ad un unico deposito geologico internazionale, localizzato in uno dei luoghi più remoti del pianeta. A tale proposito è nato il progetto Pangea, finanziato da enti internazionali, con il compito d’individuare eventuali aree adatte allo stoccaggio delle scorie. Tale progetto ha finora individuato siti d’interesse nell’area più remota dell’Australia, in Sud America e in Asia, ma che si tratti di un deposito unico o di più depositi il problema resta sempre lo stesso: affidabilità limitata al futuro prossimo, a fronte di un investimento di capitale talmente ingente da far diventare quella nucleare la fonte energetica di gran lunga più costosa.
In attesa di una soluzione che mai potrà essere trovata, le 440 centrali nucleari sparse per il mondo continuano ad operare a pieno regime, contribuendo ad aumentare considerevolmente ogni anno l’enorme quantitativo di scorie già presente ed i rifiuti ad alta radioattività vengono semplicemente stoccati in depositi “di fortuna” in attesa di un trasferimento definitivo che non avverrà mai.
Negli Stati Uniti, dove Gorge W. Bush auspica uno sviluppo del nucleare magnificandone le qualità “ecologiche” il Dipartimento dell’energia (DOE) per risolvere (in realtà porre una pezza) il problema delle scorie nucleari impiegherà dai 70 ai 100 anni, spendendo dai 200 ai 1000 miliardi di dollari. Il suo programma prevede di decontaminare le 10 principali aree inquinate del paese e di raccogliere il materiale radioattivo più pericoloso, disperso in svariati siti, per poi trasportarlo in due grandi depositi sotterranei adatti ad una sistemazione definitiva. Il progetto dovrà superare difficoltà quanto mai ostiche, quali la decontaminazione di aree vastissime (grandi addirittura la metà della Valle D’Aosta) e la ricerca di un sistema di trasporto sicuro che consenta di trasferire per migliaia di chilometri le scorie più pericolose ed individuare una sistemazione che possa restare sicura per molte decine di migliaia di anni.
Uno dei depositi sotterranei è stato identificato nel 2002 nel Nevada meridionale, circa 160 km a nord ovest di Las Vegas, sotto il monte Yucca. Il costo e la complessità dell’operazione sono enormi. Solo per gli studi preliminari del terreno e il progetto sono stati spesi circa 7 miliardi di dollari e per la costruzione del deposito è previsto un esborso di almeno 60 miliardi di dollari. Nel ventre della montagna è prevista la conservazione di 77.000 tonnellate di scorie radioattive, stipate in oltre 12.000 contenitori. A circa 300 metri di profondità verrà scavata una rete di tunnel sotterranei a spina di pesce della lunghezza di 80 km. Il materiale radioattivo, attualmente conservato in 131 depositi distribuiti in 39 stati, verrà trasportato attraverso 4.600 fra treni ed autocarri che dovranno attraversare 44 stati. Con tutta probabilità quando il deposito sarà terminato, non prima del 2015, la quantità di nuove scorie accumulatesi nel corso degli anni (al ritmo di 2300 tonnellate/anno) richiederà immediatamente la costruzione di un nuovo deposito. Inoltre studi scientifici effettuati da commissioni non governative hanno dimostrato che sarà impossibile nel lungo termine impedire le infiltrazioni delle acque sotterranee nel deposito, inficiando in questo modo la “garanzia” di circa 10.000 anni (comunque largamente insufficiente) della quale era accreditato l’impianto. Attualmente la situazione è in fase di stallo, poiché lo stesso Dipartimento dell’Energia americano ha denunciato forti sospetti concernenti una serie di gravi omissioni ed irregolarità compiute dai tecnici del servizio geologico, al fine di costruire in maniera fraudolenta elementi che confermassero la sicurezza del sito di Yucca Mountain. Larga parte del mondo scientifico non ritiene inoltre che lo stato attuale della tecnologia possa permettere di stoccare adeguatamente i rifiuti radioattivi e preferirebbe continuare a stoccare le scorie nucleari in maniera provvisoria all’interno di enormi “bare” di cemento armato per alcune decine di anni, al fine di affrontare il problema successivamente, confidando in una tecnologia più raffinata che possa offrire un maggior ventaglio di soluzioni.
Fra 50 o 100 anni, secondo gli esperti, i rifiuti nucleari avrebbero oltretutto subito un certo decadimento radioattivo e risulterebbero più facilmente trattabili. Il fatto che il paese più tecnologicamente avanzato al mondo si trovi praticamente nella situazione di non avere soluzioni concrete al problema scorie dovrebbe indurre a più di una riflessione.
L’attuale stato di conservazione delle scorie nei vari paesi è spesso estremamente precario ed anche le più elementari norme di sicurezza non sono neppure prese in considerazione, costituendo la potenziale occasione per incidenti di gravità anche superiore a quello di Cernobyl. Questo non avviene solo nei paesi meno sviluppati e nell’est europeo, ma anche negli stessi Stati Uniti. Attualmente a Hanford, non lontano da Seattle, le scorie radioattive dei reattori nucleari impiegati per costruire armi atomiche sono state conservate per venti anni in contenitori inadeguati, per di più gli agenti chimici utilizzati per neutralizzare il materiale radioattivo si sono nel tempo decomposti in sostanze altamente esplosive. Pertanto quei contenitori sono diventati delle vere e proprie bombe atomiche, pronte a esplodere alla prima scintilla. Per risolvere il problema sono oggi impiegate 1240 persone, con un budget annuale di 500 milioni di dollari. I contenitori sono ben 177, con un diametro medio di oltre venti metri e con una capacità complessiva di oltre 160 milioni di litri. Nel 1990 la Westinghouse, società incaricata dell’ispezione, rifiutò persino di esaminare il famigerato contenitore 101SY in quanto nessuno era in grado di immaginare quale sostanza fosse stata generata dalle reazioni chimiche in corso e quanto pericoloso potesse essere l’immersione di una sonda.
Soltanto un anno dopo la Westinghouse riuscì a immettere un video-registratore e il nastro di quella registrazione fece il giro delle stazioni televisive americane, mostrando qualcosa di molto simile al centro di un vulcano alla vigilia di un’eruzione. Persino l’uranio usato da Enrico Fermi nel 1942 è ancora in attesa di una sistemazione finale.
Risulta dunque evidente come la questione delle scorie radioattive rappresenti un problema enorme, sia dal punto di vista gestionale sia da quello economico, per tutti coloro che hanno “sposato” il nucleare sia per l’uso civile che per quello militare. La “banda dell’atomo” che anche in Italia sta tentando di riproporsi con la promessa di energia a buon mercato può solo fingere che i rifiuti radioattivi non esistano, poiché qualunque tentativo serio di smaltimento degli stessi, avrebbe dei costi esorbitanti (a fronte di ben scarsa resa) e li metterebbe inevitabilmente fuori dai giochi. Il pericolo più grave, posto nell’immediato, è quello che alcune organizzazioni (molte delle quali private) fra quelle che gestiscono le centrali ed il loro contenuto, scelga la strada più semplice e decida di far “sparire” le proprie scorie, magari in fondo al mare o interrandole in vecchie cave e gallerie in disuso, confidando nel fatto che ben difficilmente in tempi brevi un simile crimine ecologico verrebbe alla luce.
Ma dal momento che nelle premesse abbiamo parlato di Saluggia, apriamo un breve inciso concernente il rapporto che l’Italia ha con le proprie scorie nucleari. In Italia tutto ciò che oggi riguarda il nucleare fa capo alla Società Gestione Impianti Nucleari s.p.a. (SOGIN) istituita nel 1999, che ha incorporato tutte le strutture e le competenze che prima appartenevano all’Enel nell’ambito del nucleare. Presidente della SOGIN è stato fino a pochi mesi fa il generale Carlo Jean che nel febbraio 2003 quantificò i rifiuti radioattivi presenti in Italia in: circa 50.000 m³ di scorie radioattive a bassa e media radioattività, circa 8.000 m³ di scorie radioattive ad alta radioattività, 62 tonnellate di combustibile irraggiato che si trovano ancora oggi in Francia , diversi "cask" di combustibile riprocessato che attualmente sono in Gran Bretagna (Sellafield) oltre ad ospedali, acciaierie, impianti petrolchimici e così via che producono circa 500 tonnellate di rifiuti radioattivi ogni anno. Dal 1989 in poi il cittadino italiano ha iniziato a pagare, attraverso un’addizionale sulle bollette Enel, i cosiddetti “oneri nucleari” destinati in un primo tempo a compensare l’Enel e le altre società collegate per le perdite conseguenti alla dismissione delle centrali. Dal 2001 in poi e fino al 2021 gli oneri saranno destinati alla SOGIN e finalizzati alla messa in sicurezza degli 80.000 m³ di scorie radioattive frutto dell’attività nucleare. Alla data del 2021 i cittadini avranno pagato attraverso addizionali sulla bolletta Enel la cifra astronomica di 11 miliardi di euro, pressappoco la metà dell’ultima manovra finanziaria.
Con la legge 368 del 2003, contemporaneamente alla nomina del generale Jean quale Commissario con poteri speciali per il nucleare, il premier Silvio Berlusconi elenca gli impianti atomici che devono essere smantellati e dispone l’individuazione di un Deposito Nazionale nel quale le scorie radioattive dovranno essere stoccate. Il 13 novembre 2003 il Consiglio dei Ministri approva un decreto nel quale individua a Scanzano Jonico, in basilicata il sito nazionale nel quale accumulare le scorie derivanti dalla dismissione delle centrali nucleari. Il costo dell’operazione, comprensivo degli studi necessari per valutare l’idoneità del sito e degli oneri conseguenti al trasporto dei materiali pericolosi arriva nelle previsioni a sfiorare i 2 miliardi di euro. La conseguenza di questa decisione è lo scatenarsi di una vera e propria rivolta da parte degli abitanti e delle autorità di Scanzano e dell’intera basilicata. Proteste, cortei e blocchi stradali si susseguono praticamente senza soluzione di continuità e il 27 novembre il governo si vede costretto a modificare il decreto, togliendo il nome di Scanzano ed impegnandosi ad identificare entro 18 mesi un nuovo sito nazionale che dovrà essere completato entro e non oltre il 31 dicembre 2008. Di mesi da allora ne sono passati quasi 40 ed il 65% dei rifiuti radioattivi italiani continua ad essere conservato nei pressi della cittadina di Saluggia in una conca alluvionale in riva alla Dora Baltea, in un luogo giudicato “indifendibile” dagli stessi servizi segreti italiani.
Già durante l’alluvione del 2000 l’acqua del fiume arrivò a lambire le scorie e il premio Nobel Carlo Rubbia dichiarò che se il livello del fiume fosse stato solo di pochi centimetri più alto, avremmo assistito all’inquinamento della Dora, del Po e del Mare Adriatico, creando una catastrofe di proporzioni superiori a quella di Cernobyl. Recentemente un’ordinanza emanata dallo stesso generale Jean ha conferito alla SOGIN il diritto di costruire nel sito Eurex di Saluggia due nuovi depositi per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Tali depositi, uno per le scorie a bassa e media radioattività, l’altro per quelle ad alta radioattività, della capienza rispettivamente di 46.000 e 8.000 m³vengono definiti sulla carta temporanei, ma tutta l’architettura dei nuovi progetti sembra antitetica a quella della loro destinazione d’uso di edifici provvisori. La costruzione dei depositi a Saluggia dimostra chiaramente che Sogin non ha alcuna intenzione di procedere all’apertura (come da legge) del deposito nazionale definitivo entro il 31 dicembre 2008 e che l’intendimento è quella di lasciare il 65% dei rifiuti radioattivi italiani stoccati a tempo indefinito nella cittadina piemontese, in una zona del tutto inadatta a questo genere di operazione, poiché ad alto rischio alluvionale, a brevissima distanza dai pozzi dell’acquedotto che serve tutto il Monferrato e già sta subendo infiltrazioni radioattive.
Negli Stati Uniti, come in Italia e nel resto del mondo la “banda dell’atomo” è sempre pronta a spendersi in un’improbabile battaglia per il rilancio del nucleare, ma quando si tratta di affrontare la gestione delle scorie radioattive, brancola nel buio senza riuscire a proporsi con un minimo di credibilità. Il rischio connesso ai rifiuti radioattivi è altissimo e lo diventerà sempre più negli anni a venire in quanto la tecnologia non è assolutamente in grado di far fronte alle conseguenze mostruose di ciò che essa stessa ha ingenerato.
Gorge W. Bush ha recentemente manifestato la propria volontà d’investire nel nucleare, considerando quella atomica una fonte energetica sostanzialmente sicura e pulita nella quale occorre “credere” e sulla stessa linea di pensiero sembra essere schierato anche il Presidente russo Vladimir Putin.
Quello dell’energia sta diventando sempre più uno dei temi focali intorno al quale si concentrano le attenzioni di tutti coloro (esperti e non) che analizzano le prospettive potenziali del nostro Paese in termini di sviluppo, crescita economica e competitività industriale. E’ opinione diffusa di una parte del mondo politico e scientifico che la mancata ripresa economica italiana sia da imputarsi al profondo gap energetico che ci separa dal resto dei paesi “sviluppati” e che questo gap sia in larga parte determinato dalla scelta operata nel 1987 dal popolo italiano di rinunciare allo sfruttamento dell’energia nucleare. Al tempo stesso a Saluggia, un piccolo paese di circa 4000 anime, sprofondato nelle prime propaggini della pianura padana fra Torino e Vercelli, la popolazione ed un gran numero di esperti ed associazioni ambientaliste, protestano contro la decisione di trasformare il comune in una sorta di discarica a tempo indeterminato per le scorie radioattive italiane, risalenti in larga parte al breve periodo di funzionamento delle centrali nucleari nostrane, e nelle falde acquifere della zona sono stati riscontrati segnali di radioattività.
Le scorie radioattive rappresentano un argomento talmente scottante per tutti i paesi industrializzati che producono (o come l’Italia hanno prodotto) energia tramite l’uso del nucleare, da far si che ogni notizia riguardo la loro presenza e le complesse metodiche concernenti il loro smaltimento, venga puntualmente epurata dal palinsesto dei media e relegata nel novero di quelle informazioni che devono essere sottaciute, affogate nel silenzio, soffocate nell’omertà mediatica. Le scorie nucleari sono il vero tallone d’Achille di una fonte di energia come quella atomica che spesso viene presentata all’opinione pubblica come sostanzialmente “pulita” ed economicamente molto conveniente. La pericolosità delle scorie e gli esorbitanti costi inerenti al loro stoccaggio (di smaltimento in realtà si può parlare solo impropriamente) costituiscono la prova prima di come fra le fonti energetiche il nucleare sia, contrariamente a quanto espresso dalla propaganda, di gran lunga la più devastante. Tanto dal punto di vista dell’inquinamento ambientale e dei rischi per la salute, quanto da quello della resa economica che risulta scarsissima qualora si quantifichino (e finora si è evitato di farlo) i costi derivanti dall’intera vita delle centrali fino alla loro dismissione e dalla messa in sicurezza (o presunta tale) dell’enorme quantità di rifiuti radioattivi prodotti nel corso dell’intero ciclo.
Se oggi a livello mondiale la produzione di energia tramite il nucleare, nonostante l’incidente di Cernobyl, gode ancora di un certo credito e di una patente di convenienza economica fra le fonti energetiche esistenti, lo si deve solamente alla profonda opera di mistificazione messa in atto dai fautori dell’atomo che sono soliti nascondere sotto il “tappeto” il problema delle scorie radioattive, evitando di contabilizzare i costi della loro gestione presente e futura. Costi che in presenza di un serio e consapevole trattamento delle scorie in funzione della loro ferale pericolosità, avrebbero già da tempo decretato la morte di ogni programma energetico basato sul nucleare.
Le scorie nucleari sono derivate dal combustibile esausto originatisi all’interno del reattore nucleare nel corso dell’esercizio, ma anche dagli scarti di lavorazione e dai rottami metallici. Sono molte le categorie nelle quali vengono suddivise le scorie nucleari e sostanzialmente dipendono dal loro stato, solido, liquido o gassoso, dal potenziale di radioattività in esse contenuto e dalla durata nel tempo della loro pericolosità. Sostanzialmente i rifiuti radioattivi si dividono in tre gruppi: Le scorie a bassa attività costituite da carta, stracci, indumenti, guanti, soprascarpe, filtri liquidi, derivanti oltre che dalle installazioni nucleari anche dagli ospedali , dalle industrie e dai laboratori di ricerca. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 200 m³.
Le scorie a media attività, costituite dagli scarti di lavorazione, dai rottami metallici, dai liquidi, fanghi e dalle resine esaurite, derivanti principalmente dalle centrali nucleari, dagli impianti di riprocessamento e dai centri di ricerca. Un tipico reattore nucleare ne produce circa 100 m³ l’anno.
Le scorie ad alta attività, costituite dal combustibile nucleare irraggiato e dalle scorie primarie del riprocessamento, derivanti unicamente dalle centrali nucleari e dagli impianti di riprocessamento. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 30 tonnellate che corrispondono una volta riprocessate a 4 m³ di materiale vetrificato.
Le scorie a bassa e media attività resteranno pericolose per alcune centinaia d’anni (circa 300) quelle ad alta attività, che costituiscono solo il 3% del volume totale ma rappresentano da sole il 95% della radioattività complessiva, manterranno la loro carica mortale per molte migliaia di anni (fino a 250.000 anni).
Stiamo perciò parlando di periodi estremamente significativi sull’asse temporale, che vanno molto al di là non solo dell’arco di una vita umana, ma anche della possibile durata di una “civiltà” e perfino della storia dell’esistenza umana così come noi la conosciamo. Questi dati dovrebbero bastare essi soli a darci la dimensione dell’incommensurabile grandezza del problema con il quale ci stiamo confrontando e dell’assoluta impossibilità della tecnologia scientifica attuale (e con tutta probabilità anche futura) di smaltire in una qualche maniera l’enorme carico di materiale radioattivo che anno dopo anno si sta accumulando come conseguenza dell’attività delle oltre 400 centrali nucleari disseminate sul pianeta. Ogni anno queste centrali, presenti in 31 nazioni producono migliaia di tonnellate di scorie, ogni anno gli Stati Uniti producono 2300 tonnellate di rifiuti radioattivi e nella sola Francia si produce una quantità di nuove scorie pari a tutte quelle presenti in Italia.
Nei paesi membri della IAEA sono attivi oltre 70 depositi definitivi per rifiuti nucleari a bassa radioattività (circa 300 anni) una dozzina sono già stati chiusi, una decina stanno per chiudere, almeno 20 sono in fase di costruzione e molti altri sono in fase di progettazione. La maggior parte di essi (circa il 90%) sono costruiti in superficie e costituiti da trincee, tumuli, silos e sarcofaghi di calcestruzzo, volti a garantirne la conservazione in tutte le condizioni prevedibili. Il restante 10% è costituito da depositi posti in cavità sotterranee o in formazioni geologiche profonde. A garanzia della sicurezza di tali depositi sono state adottate barriere artificiali più o meno complesse (a seconda della rigidità del clima e delle caratteristiche del territorio) e sistemi di monitoraggio ambientale estesi oltre che al deposito anche alle aree circostanti. Appare comunque evidente come sia un esercizio sillabico privo di senso parlare di sicurezza facendo riferimento ad un periodo temporale di 300 anni. Anche nel caso (non sempre probabile) di una perfetta tenuta delle strutture per tutto l’arco di tempo, subentrerebbe infatti l’altissimo rischio di eventi imponderabili quali attentati terroristici, guerre, terremoti, alluvioni ed incidenti di vario genere, la cui possibilità in un periodo così lungo risulta tutt’altro che remota.
I depositi definitivi esistenti nel mondo riguardano esclusivamente i rifiuti nucleari a bassa radioattività e viene spontaneo domandarsi cosa sia stato fatto per quanto concerne le scorie ad alta radioattività, minori quantitativamente ma enormemente più pericolose in quanto fonti di radiazioni per decine di migliaia di anni, fino a 250.000 anni. In realtà per mettere in sicurezza i rifiuti nucleari ad alta radioattività non è stato fatto assolutamente nulla, o meglio tutto il gotha della tecnologia mondiale ha dimostrato di non avere assolutamente né i mezzi né tanto meno le conoscenze tecnico/scientifiche per affrontare un problema che travalica di gran lunga le capacità operative dell’essere umano, qualunque siano le sue competenze tecniche. Rapportarsi con periodi di tempo il cui ordine è quello delle ere geologiche significa abbandonare ogni stilla di realismo, per rifugiarsi fra le pieghe dell’utopia, dell’incoscienza e della pazzia. Nulla e nessuno potrà mai prevedere le mutazioni di ogni genere che riguarderanno il pianeta nei prossimi 100/200 mila anni, né individuare luoghi o spazi adatti a stipare in sicurezza le scorie ad alta radioattività in un futuro tanto lontano.
Ciò nonostante, almeno virtualmente, alcune ipotesi sono state prese in considerazione. Una delle più realistiche consiste nel depositare i rifiuti radioattivi dentro formazioni geologiche naturali, profonde centinaia o migliaia di metri. Tale soluzione, che potrebbe avere un senso per quanto concerne le scorie a bassa radioattività, ne diviene priva se riferita ai rifiuti altamente radioattivi, in quanto durante svariate decine di migliaia di anni anche la conformazione di grotte e caverne è per forza di cose destinata a mutare radicalmente. Fra le opinioni maggiormente condivise a livello scientifico vi è anche quella che ventila il ricorso ad un unico deposito geologico internazionale, localizzato in uno dei luoghi più remoti del pianeta. A tale proposito è nato il progetto Pangea, finanziato da enti internazionali, con il compito d’individuare eventuali aree adatte allo stoccaggio delle scorie. Tale progetto ha finora individuato siti d’interesse nell’area più remota dell’Australia, in Sud America e in Asia, ma che si tratti di un deposito unico o di più depositi il problema resta sempre lo stesso: affidabilità limitata al futuro prossimo, a fronte di un investimento di capitale talmente ingente da far diventare quella nucleare la fonte energetica di gran lunga più costosa.
In attesa di una soluzione che mai potrà essere trovata, le 440 centrali nucleari sparse per il mondo continuano ad operare a pieno regime, contribuendo ad aumentare considerevolmente ogni anno l’enorme quantitativo di scorie già presente ed i rifiuti ad alta radioattività vengono semplicemente stoccati in depositi “di fortuna” in attesa di un trasferimento definitivo che non avverrà mai.
Negli Stati Uniti, dove Gorge W. Bush auspica uno sviluppo del nucleare magnificandone le qualità “ecologiche” il Dipartimento dell’energia (DOE) per risolvere (in realtà porre una pezza) il problema delle scorie nucleari impiegherà dai 70 ai 100 anni, spendendo dai 200 ai 1000 miliardi di dollari. Il suo programma prevede di decontaminare le 10 principali aree inquinate del paese e di raccogliere il materiale radioattivo più pericoloso, disperso in svariati siti, per poi trasportarlo in due grandi depositi sotterranei adatti ad una sistemazione definitiva. Il progetto dovrà superare difficoltà quanto mai ostiche, quali la decontaminazione di aree vastissime (grandi addirittura la metà della Valle D’Aosta) e la ricerca di un sistema di trasporto sicuro che consenta di trasferire per migliaia di chilometri le scorie più pericolose ed individuare una sistemazione che possa restare sicura per molte decine di migliaia di anni.
Uno dei depositi sotterranei è stato identificato nel 2002 nel Nevada meridionale, circa 160 km a nord ovest di Las Vegas, sotto il monte Yucca. Il costo e la complessità dell’operazione sono enormi. Solo per gli studi preliminari del terreno e il progetto sono stati spesi circa 7 miliardi di dollari e per la costruzione del deposito è previsto un esborso di almeno 60 miliardi di dollari. Nel ventre della montagna è prevista la conservazione di 77.000 tonnellate di scorie radioattive, stipate in oltre 12.000 contenitori. A circa 300 metri di profondità verrà scavata una rete di tunnel sotterranei a spina di pesce della lunghezza di 80 km. Il materiale radioattivo, attualmente conservato in 131 depositi distribuiti in 39 stati, verrà trasportato attraverso 4.600 fra treni ed autocarri che dovranno attraversare 44 stati. Con tutta probabilità quando il deposito sarà terminato, non prima del 2015, la quantità di nuove scorie accumulatesi nel corso degli anni (al ritmo di 2300 tonnellate/anno) richiederà immediatamente la costruzione di un nuovo deposito. Inoltre studi scientifici effettuati da commissioni non governative hanno dimostrato che sarà impossibile nel lungo termine impedire le infiltrazioni delle acque sotterranee nel deposito, inficiando in questo modo la “garanzia” di circa 10.000 anni (comunque largamente insufficiente) della quale era accreditato l’impianto. Attualmente la situazione è in fase di stallo, poiché lo stesso Dipartimento dell’Energia americano ha denunciato forti sospetti concernenti una serie di gravi omissioni ed irregolarità compiute dai tecnici del servizio geologico, al fine di costruire in maniera fraudolenta elementi che confermassero la sicurezza del sito di Yucca Mountain. Larga parte del mondo scientifico non ritiene inoltre che lo stato attuale della tecnologia possa permettere di stoccare adeguatamente i rifiuti radioattivi e preferirebbe continuare a stoccare le scorie nucleari in maniera provvisoria all’interno di enormi “bare” di cemento armato per alcune decine di anni, al fine di affrontare il problema successivamente, confidando in una tecnologia più raffinata che possa offrire un maggior ventaglio di soluzioni.
Fra 50 o 100 anni, secondo gli esperti, i rifiuti nucleari avrebbero oltretutto subito un certo decadimento radioattivo e risulterebbero più facilmente trattabili. Il fatto che il paese più tecnologicamente avanzato al mondo si trovi praticamente nella situazione di non avere soluzioni concrete al problema scorie dovrebbe indurre a più di una riflessione.
L’attuale stato di conservazione delle scorie nei vari paesi è spesso estremamente precario ed anche le più elementari norme di sicurezza non sono neppure prese in considerazione, costituendo la potenziale occasione per incidenti di gravità anche superiore a quello di Cernobyl. Questo non avviene solo nei paesi meno sviluppati e nell’est europeo, ma anche negli stessi Stati Uniti. Attualmente a Hanford, non lontano da Seattle, le scorie radioattive dei reattori nucleari impiegati per costruire armi atomiche sono state conservate per venti anni in contenitori inadeguati, per di più gli agenti chimici utilizzati per neutralizzare il materiale radioattivo si sono nel tempo decomposti in sostanze altamente esplosive. Pertanto quei contenitori sono diventati delle vere e proprie bombe atomiche, pronte a esplodere alla prima scintilla. Per risolvere il problema sono oggi impiegate 1240 persone, con un budget annuale di 500 milioni di dollari. I contenitori sono ben 177, con un diametro medio di oltre venti metri e con una capacità complessiva di oltre 160 milioni di litri. Nel 1990 la Westinghouse, società incaricata dell’ispezione, rifiutò persino di esaminare il famigerato contenitore 101SY in quanto nessuno era in grado di immaginare quale sostanza fosse stata generata dalle reazioni chimiche in corso e quanto pericoloso potesse essere l’immersione di una sonda.
Soltanto un anno dopo la Westinghouse riuscì a immettere un video-registratore e il nastro di quella registrazione fece il giro delle stazioni televisive americane, mostrando qualcosa di molto simile al centro di un vulcano alla vigilia di un’eruzione. Persino l’uranio usato da Enrico Fermi nel 1942 è ancora in attesa di una sistemazione finale.
Risulta dunque evidente come la questione delle scorie radioattive rappresenti un problema enorme, sia dal punto di vista gestionale sia da quello economico, per tutti coloro che hanno “sposato” il nucleare sia per l’uso civile che per quello militare. La “banda dell’atomo” che anche in Italia sta tentando di riproporsi con la promessa di energia a buon mercato può solo fingere che i rifiuti radioattivi non esistano, poiché qualunque tentativo serio di smaltimento degli stessi, avrebbe dei costi esorbitanti (a fronte di ben scarsa resa) e li metterebbe inevitabilmente fuori dai giochi. Il pericolo più grave, posto nell’immediato, è quello che alcune organizzazioni (molte delle quali private) fra quelle che gestiscono le centrali ed il loro contenuto, scelga la strada più semplice e decida di far “sparire” le proprie scorie, magari in fondo al mare o interrandole in vecchie cave e gallerie in disuso, confidando nel fatto che ben difficilmente in tempi brevi un simile crimine ecologico verrebbe alla luce.
Ma dal momento che nelle premesse abbiamo parlato di Saluggia, apriamo un breve inciso concernente il rapporto che l’Italia ha con le proprie scorie nucleari. In Italia tutto ciò che oggi riguarda il nucleare fa capo alla Società Gestione Impianti Nucleari s.p.a. (SOGIN) istituita nel 1999, che ha incorporato tutte le strutture e le competenze che prima appartenevano all’Enel nell’ambito del nucleare. Presidente della SOGIN è stato fino a pochi mesi fa il generale Carlo Jean che nel febbraio 2003 quantificò i rifiuti radioattivi presenti in Italia in: circa 50.000 m³ di scorie radioattive a bassa e media radioattività, circa 8.000 m³ di scorie radioattive ad alta radioattività, 62 tonnellate di combustibile irraggiato che si trovano ancora oggi in Francia , diversi "cask" di combustibile riprocessato che attualmente sono in Gran Bretagna (Sellafield) oltre ad ospedali, acciaierie, impianti petrolchimici e così via che producono circa 500 tonnellate di rifiuti radioattivi ogni anno. Dal 1989 in poi il cittadino italiano ha iniziato a pagare, attraverso un’addizionale sulle bollette Enel, i cosiddetti “oneri nucleari” destinati in un primo tempo a compensare l’Enel e le altre società collegate per le perdite conseguenti alla dismissione delle centrali. Dal 2001 in poi e fino al 2021 gli oneri saranno destinati alla SOGIN e finalizzati alla messa in sicurezza degli 80.000 m³ di scorie radioattive frutto dell’attività nucleare. Alla data del 2021 i cittadini avranno pagato attraverso addizionali sulla bolletta Enel la cifra astronomica di 11 miliardi di euro, pressappoco la metà dell’ultima manovra finanziaria.
Con la legge 368 del 2003, contemporaneamente alla nomina del generale Jean quale Commissario con poteri speciali per il nucleare, il premier Silvio Berlusconi elenca gli impianti atomici che devono essere smantellati e dispone l’individuazione di un Deposito Nazionale nel quale le scorie radioattive dovranno essere stoccate. Il 13 novembre 2003 il Consiglio dei Ministri approva un decreto nel quale individua a Scanzano Jonico, in basilicata il sito nazionale nel quale accumulare le scorie derivanti dalla dismissione delle centrali nucleari. Il costo dell’operazione, comprensivo degli studi necessari per valutare l’idoneità del sito e degli oneri conseguenti al trasporto dei materiali pericolosi arriva nelle previsioni a sfiorare i 2 miliardi di euro. La conseguenza di questa decisione è lo scatenarsi di una vera e propria rivolta da parte degli abitanti e delle autorità di Scanzano e dell’intera basilicata. Proteste, cortei e blocchi stradali si susseguono praticamente senza soluzione di continuità e il 27 novembre il governo si vede costretto a modificare il decreto, togliendo il nome di Scanzano ed impegnandosi ad identificare entro 18 mesi un nuovo sito nazionale che dovrà essere completato entro e non oltre il 31 dicembre 2008. Di mesi da allora ne sono passati quasi 40 ed il 65% dei rifiuti radioattivi italiani continua ad essere conservato nei pressi della cittadina di Saluggia in una conca alluvionale in riva alla Dora Baltea, in un luogo giudicato “indifendibile” dagli stessi servizi segreti italiani.
Già durante l’alluvione del 2000 l’acqua del fiume arrivò a lambire le scorie e il premio Nobel Carlo Rubbia dichiarò che se il livello del fiume fosse stato solo di pochi centimetri più alto, avremmo assistito all’inquinamento della Dora, del Po e del Mare Adriatico, creando una catastrofe di proporzioni superiori a quella di Cernobyl. Recentemente un’ordinanza emanata dallo stesso generale Jean ha conferito alla SOGIN il diritto di costruire nel sito Eurex di Saluggia due nuovi depositi per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Tali depositi, uno per le scorie a bassa e media radioattività, l’altro per quelle ad alta radioattività, della capienza rispettivamente di 46.000 e 8.000 m³vengono definiti sulla carta temporanei, ma tutta l’architettura dei nuovi progetti sembra antitetica a quella della loro destinazione d’uso di edifici provvisori. La costruzione dei depositi a Saluggia dimostra chiaramente che Sogin non ha alcuna intenzione di procedere all’apertura (come da legge) del deposito nazionale definitivo entro il 31 dicembre 2008 e che l’intendimento è quella di lasciare il 65% dei rifiuti radioattivi italiani stoccati a tempo indefinito nella cittadina piemontese, in una zona del tutto inadatta a questo genere di operazione, poiché ad alto rischio alluvionale, a brevissima distanza dai pozzi dell’acquedotto che serve tutto il Monferrato e già sta subendo infiltrazioni radioattive.
Negli Stati Uniti, come in Italia e nel resto del mondo la “banda dell’atomo” è sempre pronta a spendersi in un’improbabile battaglia per il rilancio del nucleare, ma quando si tratta di affrontare la gestione delle scorie radioattive, brancola nel buio senza riuscire a proporsi con un minimo di credibilità. Il rischio connesso ai rifiuti radioattivi è altissimo e lo diventerà sempre più negli anni a venire in quanto la tecnologia non è assolutamente in grado di far fronte alle conseguenze mostruose di ciò che essa stessa ha ingenerato.
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