Marco Cedolin
La prima impressione che si prova nel leggere il testo integrale del disegno di legge finanziaria presentato durante questi giorni al parlamento è quella di trovarsi dinanzi ad una costruzione la quale tenta di presentarsi come un progetto architettonico omogeneo e coerente, ma in realtà finisce per rivelarsi solamente un mero artificio volto a nascondere lo stato di assoluta inanità del governo, impossibilitato a raschiare per l’ennesima volta il fondo di un barile la cui base è ormai stata erosa da tempo.
Pur guardandosi bene dal volere assumere toni da cassandra e dal cadere nella facile demagogia in virtù della quale tutto ciò che viene esperito dal governo Berlusconi è per forza di cose negativo e riprovevole, non si riesce comunque a comprendere, anche facendo ausilio a massicce dosi di fantasia, come lo stentoreo incedere dei 60 articoli dei quali il disegno si compone, potrebbe magicamente preludere alla più volte vagheggiata ripresa economica del nostro paese.
L’unico dato certo ed incontrovertibile è rappresentato dallo stanziamento degli 11,5 miliardi di euro necessari ( e probabilmente non sufficienti) a riportare il rapporto deficit/ pil all’interno dei margini concordati con l’Unione Europea.
Tutto il resto della manovra è permeato da una sensazione di vaghezza, con ampio ricorso a situazioni estemporanee, difficilmente in grado di ottenere risultati di sorta.
Sia nell’ottica del reperimento delle risorse, sia in quella della destinazione delle stesse, emerge dal testo, quasi a livello epidermico, l’assoluta mancanza d’idee e la scarsa volontà d’impostare qualsivoglia strategia in grado d’incidere significativamente sulla drammatica situazione nella quale versa il paese.
Ma entriamo nel merito dei tratti salienti del disegno, per quanto molti di essi siano ad oggi solo tratteggiati e probabili oggetto di successive modificazioni, integrazioni e specificazioni.
Senza dubbio uno dei punti più controversi della manovra è costituito dal taglio di quasi 7 punti percentuali, della spesa corrente degli enti locali. Si tratta di una enorme sottrazione di risorse nei confronti di comuni, province e regioni, di fronte alla quale molti amministratori stanno protestando con veemenza, mentre il governo si difende assicurando che codesti tagli non influiranno sulla qualità dei servizi offerti al cittadino.
In realtà pare evidente il fatto che finirà per ricadere sulle economie delle famiglie italiane, già asfittiche ed in gravissima crisi, se non tutto almeno buona parte del peso di questa sforbiciata.
La ricaduta si manifesterà nel tempo sia sotto forma di un incremento di disservizi pubblici, sia sotto forma di aumenti nelle aliquote delle tasse pagate dai cittadini, nei confronti di quegli enti locali che saranno alla spasmodica ricerca di denaro per i loro bilanci.
Molto interessante risulta anche notare come il governo abbia inteso bloccare in quasi tutti i settori della pubblica amministrazione le assunzioni a tempo indeterminato, facendo altresì ampio ricorso ai contratti a tempo determinato, che ovviamente offrono prospettive notevolmente più scarse sia dal punto di vista occupazionale che da quello della remuneratività.
Ho scritto quasi, poiché in realtà esiste un’eccezione, sia per quanto concerne la possibilità di nuovi contratti a tempo indeterminato (ne sono previsti almeno7000) sia per quanto concerne l’assoluta impermeabilità del settore ad ogni politica di riduzione della spesa e si tratta dell’ordine pubblico e della difesa.
Continuando ad agitare lo spauracchio della catastrofica minaccia terroristica, tanto caro al ministro Pisanu, s’intende in questa finanziaria imporre una politica di risparmio e sacrificio ad ogni comparto della pubblica amministrazione, incrementando invece gli investimenti in uomini e mezzi da destinare alle forze dell’ordine e all’esercito. In questo stesso ordine d’idee s’inserisce anche il sontuoso rifinanziamento delle molteplici operazioni di pace keeping o illegale occupazione del suolo straniero (fate voi) che i militari italiani gestiscono in varie parti del mondo (Iraq compreso).
Non convince neppure l’addizionale a carico delle grande reti di trasmissioni dell’energia, attraverso la quale il governo spera di ricavare quasi 1 miliardo di euro.
Non convince poiché appare chiara la sua inevitabile ricaduta su coloro che questa energia la consumano, cioè cittadini e le imprese che si troveranno inevitabilmente a farsi carico di questo esborso attraverso un rincaro delle bollette.
Altrettanto negativo per i bilanci famigliari risulta “l’aggiornamento” (traducendo dal politichese l’aumento) delle sanzioni civili amministrative e penali pecuniarie dal quale è previsto un ricavo di almeno 100 milioni di euro.
Fantasioso ed assolutamente nebuloso nel merito della maniera con la quale s’intende procedere alla sua attuazione, risulta il capitolo dedicato ai proventi derivanti dalla lotta all’evasione fiscale.
Leggendolo si finisce per apprezzare solamente piccole variazioni in burocratese all’uno o all’altro comma e si acquisisce la consapevolezza che molto probabilmente il tutto si tradurrà nell’ennesimo condono, utile a dare una boccata d’ossigeno alle finanze dello stato e ad arricchire la legittimità dei grandi evasori fiscali.
Dopo questa breve analisi di alcuni strumenti attraverso i quali il governo intende reperire i fondi e le perplessità sopra esposte, tentiamo ora di esperire dal testo del disegno di legge finanziaria le modalità attraverso le quali s’intende risollevare le sorti dell’economia, aumentare il potere d’acquisto delle famiglie e restituire competitività alle imprese, un punto fondamentale se realmente si vuole tentare di uscire dalla profonda crisi nella quale il nostro paese si è invorticato e che rischia di pregiudicare gravemente l’immediato futuro di tutti noi.
A questo proposito non si riesce registrare altro che il vuoto assoluto. Manca ogni sorta d’idea in grado d’incidere anche solo marginalmente sul problema, mancano le coperture finanziarie per mettere in atto un’eventuale idea seria che si fosse riscontrata, manca perfino la fantasia indispensabile per immaginare qualcosa di diverso.
Le proposte che si ventilano sono tentativi estremamente puerili aventi il solo scopo di ottenere qualche risultato nell’immaginario collettivo degli elettori, non certo di creare qualche sia pur minimo riscontro nella realtà delle cose.
Accantonato definitivamente (perlomeno fino a quando non sarà l’Europa ad imporcelo) il più volte ventilato taglio dell’Irap per le imprese, oggetto d’innumerevoli dibattiti televisivi e non, il governo ha deciso di operare una riduzione del cuneo contributivo attraverso un taglio dell’1% dei contributi sociali delle imprese, intendendo in questo modo migliorare la competitività delle stesse.
Lascio a voi che leggete il giudizio su quanto tale provvedimento possa incidere sui problemi di competitività che affliggono l’imprenditoria italiana, ma ritengo sia l’equivalente di fingersi in procinto di svuotare il mare adriatico con l’ausilio di un setaccio.
Ancora più ridicolo e permeato di falsa utopia appare l’approccio con la perdita di potere di acquisto delle famiglie ed il conseguente calo dei consumi.
Si ventila un assegno per ogni secondo figlio od ulteriore, nato a partire da gennaio 2005, prescindendo dal quantificare l’entità del medesimo.
La ricaduta di un simile provvedimento, oltre ad essere minimale ed ovviamente legata all’importo dell’eventuale bonus, finirebbe se attuata per favorire una sola parte della popolazione e non necessariamente quella più disagiata.
Aiuterebbe solo le coppie con due o più figli mentre non prenderebbe in considerazione l’enorme quantità di giovani e meno giovani senza lavoro o con un lavoro precario, i quali non riescono neppure ad avere un reddito minimo che consenta loro di uscire dalla famiglia d’origine al fine di crearsene una propria, nonché tutti i single che faticano oltremisura per mantenersi dignitosamente con uno stipendio eroso ogni giorno di più, per non parlare di tutte quelle famiglie che al secondo figlio hanno dovuto rinunciare (e certo non sarà questo assegno a permettere loro di cambiare idea) in quanto si trovano in estrema difficoltà nel mantenere il primo.
Si legge di una somma aggiuntiva di 535 euro a favore dei soggetti disagiati, intendendo per soggetti disagiati quella estremamente esigua fascia di persone che già percepisce un minimo sussidio.
Mi astengo da ogni osservazione sulla valenza oggettiva dei 535 euro, limitandomi ad osservare come anche questo punto sia ben lontano dall’influire sul problema del potere d’acquisto delle famiglie.
Si ventila un 5 per mille d’indennizzo per i risparmiatori oggetto dei grandi crack finanziari del paese. Nulla da eccepire sul valore simbolico di un simile gesto, che però resta nell’ambito della simbologia, nonché in quello della sperequazione sociale, in quanto per quale arcana ragione chi ha perso i propri risparmi in un grande fallimento stile Cirio avrà diritto a un qualche risarcimento da parte dello stato, mentre di contralto chi li ha persi in altri crack aventi avuto meno risonanza mediatica di questo diritto sarà privato?
Dell’ipotesi di aumento a 600 euro delle pensioni minime, come dell’eventualità di un finanziamento statale dei libri di testo abbiamo avuto notizia dalle interviste dei vari soggetti politici, nell’ambito del circo mediatico dell’informazione, all’interno del quale proposte ed idee a favore delle famiglie italiane nascono e muoiono in una dissolvenza, senza durare molte volte più di 24 ore.Molte ipotesi a questo riguardo ci accompagneranno probabilmente nei prossimi mesi fino alla fine dell’anno, ma l’unica vera sensazione che mi pervade è quella di trovarmi dinanzi ad un sacco vuoto, vuoto d’idee e di contenuti, all’interno del quale pur continuando a frugare non si riesce a trovare neppure la speranza.
mercoledì 16 novembre 2005
lunedì 14 novembre 2005
Incubo TAV
Marco Cedolin
La storia che voglio raccontarvi parla di grandi capitali e di piccoli uomini, di treni che correranno vuoti a 300 km/h dentro a gallerie scavate nell’uranio, di società private costituite con il denaro pubblico, piramidi di Cheope fatte di smarino e grattacieli di fibre d’amianto, di cittadini che difendono i propri diritti additati come canaglie e di canaglie senza scrupoli … … che si fingevano persone attente all’ambiente e ai diritti dei propri cittadini, di sindaci bastonati dalla polizia in una Valle decisa a resistere all’ennesimo stupro del proprio territorio, di come un grande investimento non produrrà altro che impoverimento, di quando le parole degli esperti vengono trasformate in sussurri ed il biascicare incompetente dei politici assurge a realtà incontrovertibile.
La storia inizia il 7 agosto 1991 con la nascita di Tav spa, la società a capitale misto pubblico e privato deputata a costruire in Italia quasi 900 km di linee ferroviarie per i treni ad alta velocità.In realtà dopo il disastroso risultato economico del tunnel sotto la Manica non si riscontrava assolutamente traccia di privati disposti a rischiare il proprio capitale nella costruzione di grandi infrastrutture e quello di presentare Tav spa come una società a capitale misto era un mero artificio volto a far si che l’Italia potesse rispettare i parametri di Maastricht che imponevano il rapporto deficit-pil al 3%. Lo Stato garantì il finanziamento del 40% in conto capitale, mentre finanziò il restante 60% (quello di appannaggio dei privati) attraverso prestiti bancari, accollandosi gli interessi degli stessi fino al completamento dell’opera.
Il 10 marzo 1998 le Ferrovie di Stato che detenevano la maggioranza del capitale pubblico acquisirono il 100% di Tav spa e dal primo gennaio del 2003, ormai nell’ambito della “legge obiettivo” Tav spa è entrata nell’orbita di Infrastrutture spa, il cui azionista unico è la Cassa Depositi e Prestiti.
Tutto questo gioco di scatole cinesi, nato una quindicina di anni fa dalla fervida fantasia dell’allora ministro del Bilancio Cirino Pomicino e perfezionato poi dal governo Berlusconi sotto il nome di “project financing” ha come unico scopo quello di permettere allo Stato di contrarre enormi debiti, senza però doverli iscrivere nel proprio Bilancio, evitando così che essi incidano nei parametri del Patto Europeo di stabilità. I privati esistono veramente ma rivestono il ruolo di General Contractor grazie al perfezionamento di un’altra “intuizione” del buon Cirino Pomicino.Fiat IRI ed ENI (i General Contractor) sono concessionari con l’esclusione della gestione, hanno cioè tutti i poteri del committente pubblico nella gestione dei subappalti, nella direzione dei lavori, negli espropri, ma non hanno poi la gestione diretta dell’opera, (caso unico in Europa) per cui il loro solo interesse, essendo disancorati dalla successiva gestione, sarà quello di fare durare i lavori il più a lungo possibile al fine di fare levitare al massimo la spesa.
Inoltre il General Contractor a differenza del concessionario tradizionale di lavori o servizi pubblici potrà affidare i lavori a chi vuole anche con trattativa privata ed essendo un privato non sarà mai perseguibile per corruzione, in quanto eventuali tangenti potranno essere giustificate sotto forma di “provvigioni”.
Un’architettura senza dubbio ingegnosa attraverso la quale si trasferisce tutto il rischio d’impresa dal privato allo Stato che alla fine dei lavori sarà però costretto a restituire i prestiti delle banche, aprendo così una voragine senza fondo nella quale precipiterà giocoforza la nostra già fragile economia.
La conseguenza di tutto ciò è che il progetto dell’Alta Velocità, presentato nel 1991 con un costo previsto di 26.180 miliardi di lire, rischierà invece di costare, una volta terminato in un lontano futuro, circa 80 miliardi di euro e gli italiani ne pagheranno i debiti fino al 2040 ad un ritmo di 2 miliardi e 300 milioni di euro l’anno. Ci sarebbero molte altre cose da raccontare concernenti questi 14 anni nei quali il progetto Alta Velocità ha preso forma e mosso i suoi primi passi, anni nei quali la zona del Mugello è stata devastata dalle gallerie con conseguenze idrogeologiche irreversibili, anni nei quali personaggi legati a doppio filo alla politica e all’imprenditoria come Necci Lorenzo, Pacini Battaglia, Icalza Ercole e molti altri si sono spartiti tangenti miliardarie, sono stati indagati, hanno corrotto giudici, vinto e perso processi, il tutto continuando a mantenere sempre posizioni preminenti all’interno delle istituzioni.
Anni di grossi guadagni per chi come l’attuale ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi, attraverso la Roksoil azienda di famiglia si è aggiudicato un numero infinito di opere e consulenze o chi come Romano Prodi fondò la Nomisma, società bolognese indagata nel 1992 nell’ambito di una consulenza miliardaria sull’Alta Velocità, le cui conclusioni a fronte di un’analisi quanto mai approfondita e retribuita si manifestavano nell’enunciato che “la velocità fa risparmiare tempo”. Anni nei quali 13.779 lavoratori impegnati nel progetto Tav hanno lavorato a ciclo continuo con turni che potevano impegnarli anche per 48 ore di seguito, in gallerie dove l’aria era inquinata, la luce poca ed i rischi molti, come molti sono stati fra loro gli operai deceduti in incidenti sul lavoro. Basti pensare che nei soli primi 6 mesi di lavori sulla tratta Torino - Novara si sono annoverati 350 infortuni dei quali 2 mortali.
Ma la storia che voglio raccontarvi è una storia ad Alta Velocità, dove non esiste tempo per soffermarsi a riflettere, valutare i giudizi degli esperti, confrontarsi con le istituzioni locali. Esiste solamente una montagna di denaro senza fine sulla quale gettarsi con voracità assassina ed una montagna di roccia da sventrare al più presto per garantire la sopravvivenza del bengodi.
Il progetto per la costruzione della Linea ferroviaria Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione si è evidenziato fin da subito come il più scellerato ed economicamente dispendioso dell’intero programma Tav e la nostra storia vuole entrare nel merito delle motivazioni che hanno spinto decine di migliaia di persone ad osteggiarlo con veemenza fin dalla sua nascita. L’intenzione dei progettisti è quella di costruire un tracciato che partendo da Settimo Torinese (periferia nord est di Torino) attraversi buona parte della Valle di Susa per poi sbucare in Francia attraverso un tunnel di 52 km sotto il massiccio dell’Ambin.Tale tracciato accreditato come parte integrante di un fantomatico “Corridoio 5 Lisbona – Kiev” viene definito indispensabile ed irrinunciabile dalla maggior parte degli uomini politici di ogni razza e colore, nonché dalla Confindustria e da tutti i poteri forti che attendono di spartirsi le enormi somme di denaro garantite dall’opera per almeno i prossimi 15 anni.
Le ragioni addotte per suffragare la necessità assoluta del progetto si sono sempre limitate a demagogiche affermazioni secondo le quali la Torino – Lione sarebbe indispensabile al rilancio del Piemonte che senza di essa resterebbe isolato dall’Europa, oppure a proclami privi di fondamento secondo i quali l’opera risulta indispensabile per l’innovazione del sistema dei trasporti italiano e garantirà un enorme ritorno sia dal punto di vista economico che da quello occupazionale. E’ stata anche ventilata, in realtà senza troppa convinzione, la necessità di garantire attraverso l’opera la gestione del supposto futuro incremento dei flussi passeggeri e commerciali, nonché ipotizzato un futuro trasferimento alla rotaia del traffico su gomma tramite le navette in grado di trasportare i Tir, con conseguenze positive in termini d’inquinamento ambientale. Quando le commissioni tecniche, scientifiche e gli esperti hanno iniziato nel corso degli anni ad analizzare il progetto nelle sue varie sfaccettature è però emersa una realtà in profonda distonia con le roboanti dichiarazioni della folta schiera di politici, pennivendoli e mestieranti vari che si sono prodigati e si prodigano nel tentativo di dare alla Torino – Lione una patente di “opera necessaria” che non ha assolutamente ragione di esistere.
Quella di un Piemonte isolato dal resto d’Europa è un’affermazione talmente assurda da meritare di albergare solo nella fantasia di una mente malata. Lungo la sola la Valle di Susa passano infatti attualmente circa il 35% delle merci che valicano le Alpi, troppe veramente per una regione in stato d’isolamento.
La Valle di Susa è una valle alpina larga in media solamente 1,5 km con abbondanza d’insediamenti abitativi ed industriali. Attraverso di essa già oggi passano un’autostrada, due strade statali, una linea ferroviaria passeggeri e merci a doppio binario, un fiume, molteplici strade provinciali, acquedotti, condutture del gas, linee elettriche aeree ed interrate. Dovrebbe essere evidente per chiunque come una realtà naturale già così fortemente violentata non sia assolutamente in grado di sostenere il peso di nuove pesanti infrastrutture, se non al prezzo di conseguenze disastrose sia per il territorio che per la qualità di vita di coloro che lo abitano.
La costruzione della Torino – Lione comporterà nella sola parte italiana l’estrazione dalle gallerie di 16 milioni di metri cubi di smarino (almeno 6 volte il volume della piramide di Cheope) per i quali occorreranno 2.500.000 passaggi di camion solo per stoccare nelle varie discariche i materiali di risulta. I recenti studi d’ingegneria dei trasporti affermano che quando tra una quindicina di anni l’opera sarà terminata solo l’1% dell’attuale traffico su gomma si trasferirà sulla ferrovia. La contropartita di questo deludente risultato sarà pagata in maniera salatissima dai cittadini della Valle e della cintura di Torino, in quanto si calcola che durante questi 15 anni almeno 500 camion circoleranno giorno e notte per il trasporto dei materiali di scavo dai tunnel ai luoghi di stoccaggio, con il conseguente aumento d’inquinanti, polveri e rumore. Oltre ai grossi rischi di natura idrogeologica focalizzati nella bassa valle, ad elevato rischio alluvionale, le cui conseguenze potrebbero ripercuotersi in maniera drammatica anche sulla città di Torino, gli studi hanno messo in evidenza due punti di estrema criticità del progetto Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione.
Il primo riguarda la galleria di 23 km Musinè/Gravio che dovrebbe attraversare un terreno caratterizzato da rocce ricche di amianto. Secondo le analisi commissionate dalla Rete Ferroviaria Italiana ai geologi dell’Università di Siena il volume previsto di materiale estratto contenente amianto dovrebbe essere di almeno 1.150.000 metri cubi. Non risulta sia stato previsto alcun piano di sicurezza volto ad impedire la dispersione delle fibre d’amianto durante le fasi di lavorazione e di stoccaggio. La metà del materiale estratto contenente amianto (paragonabile per volume ad un grattacielo alto 400 metri) è previsto sia stoccata in un sito a cielo aperto nei pressi del comune di Almese, senza nessuna protezione e giocoforza esposto ai forti venti di fhon che spesso soffiano nella valle (mediamente per 40 giorni all’anno) in direzione Torino.
In un dossier curato dal dottor Edoardo Gays, oncologo dell’ospedale San Luigi di Orbassano viene sottolineato come l’amianto, riguardo al quale non esiste per l’uomo una soglia minima di tollerabilità, causa oltre ad altre affezioni il mesotelioma pleurico, un tumore maligno che si manifesta anche dopo 15, 20 anni dall’inalazione delle particelle, esso porta al decesso in media entro 9 mesi dal momento della diagnosi ed ha un tasso di mortalità nell’ordine del 100%. Sempre il dottor Gays nel suo studio esprime grossa preoccupazione per le conseguenze degli scavi e dello stoccaggio dei materiali contenenti amianto sulla salute dei cittadini ed afferma che alla luce di queste condizioni le morti per mesotelioma rischieranno di aumentare di oltre 100 volte su scala regionale.
Il secondo punto critico è costituito dal tunnel di 52 km che dovrà correre sotto il massiccio dell’Ambin, preceduto da una galleria di prospezione lunga oltre 7 km e del diametro di 6 metri.All’interno del massiccio dell’Ambin sono infatti presenti numerosi giacimenti di uranio, come documentato dal CNR fin dal 1965. Per maggior precisione il materiale presente è pechblenda, una forma particolarmente radioattiva. Una parte dello smarino estratto sarà perciò con tutta probabilità carica di radioattività ed estremamente pericolosa sia in fase di scavo che di stoccaggio.
L’uranio si disperde nell’aria e può essere inalato, inoltre contamina le falde acquifere e va ad inquinare i corsi d’acqua che possono essere utilizzati per l’irrigazione. L’uranio se inalato o ingerito provoca contaminazione interna e può essere causa di linfomi e leucemie.Occorre anche sottolineare che la distribuzione delle falde acquifere all’interno del massiccio dell’Ambin è estremamente complessa e le conseguenze degli scavi rischiano di compromettere gravemente il sistema idrografico dell’area, come già avvenuto nel corso degli scavi delle gallerie per la linea Alta Velocità Firenze – Bologna nella zona del Mugello.
Se alla luce delle analisi fin qui esposte il progetto della linea ferroviaria Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione si dimostra in maniera incontrovertibile un’opera altamente pericolosa per la salute e l’incolumità dei cittadini, non solo della Valle di Susa ma anche della cintura torinese e del capoluogo stesso, anche gli studi inerenti all’utilità ed al ritorno economico del tracciato mostrano imbarazzanti incongruenze nel merito delle quali non si può evitare di entrare.
I traffici di lunga distanza sull’asse Lisbona – Kiev, che motiverebbero il concetto di “Corridoio 5” sono ad oggi irrilevanti. Il traffico passeggeri di lunga distanza si muove e si muoverà in aereo, poiché risulta ampiamente dimostrato come le ferrovie ad Alta Velocità non siano assolutamente competitive nelle distanze superiori ai 500 km. I traffici merci di lunga distanza sono estremamente esigui, la velocità non è un requisito fondamentale (basta osservare il successo delle ferrovie statunitensi con velocità commerciali nell’ordine dei 30 km/h.) anzi contribuisce ad aumentare i costi a dismisura, favorendo sull’asse in oggetto l’alternativa marittima.
L’attuale linea ferroviaria Torino – Modane è oggi utilizzata solamente al 38% della sua capacità. Le navette predisposte per il caricamento dei Tir sono state usate solo durante il breve periodo di chiusura del Frejus, altrimenti partono ogni giorno vuote. Gli unici due treni giornalieri del collegamento ferroviario diretto Torino – Lione sono stati soppressi per mancanza di passeggeri. Una scarsità di traffico davvero disarmante per una direttrice così importante da giustificare l’investimento di 21 miliardi di euro (la metà dei quali di competenza italiana) al fine di dotarla di una linea ad Alta Velocità.
Negli anni passati, quando ancora la pesante crisi economica europea non si era manifestata in tutta la sua interezza, il governo aveva affidato ad una società molto quotata, la Setec Economie il compito di valutare i benefici dell’opera. Tale società aveva analizzato i volumi tendenziali di traffico per gli anni a venire, stimando con un ottimismo che alla luce della contrazione odierna del mercato non può che far sorridere, un volume di traffico che avrebbe dovuto attestarsi nel 2015 intorno ai 174 treni/giorno. La linea esistente, una volta effettuati gli interventi di potenziamento previsti, molti dei quali già in corso dovrebbe consentire già nel 2008 una capacità di circa 220 treni/giorno, un valore ampiamente compatibile con qualsiasi ottimistica previsione.
Alla luce di questi dati si stenta veramente a comprendere, se non nell’ottica della spartizione mafiosa dei finanziamenti pubblici, per quale arcana ragione anziché perseguire lo sfruttamento della linea attuale ottimizzandone le potenzialità, s’intenda invece portare a termine un progetto totalmente inutile come quello della linea ferroviaria Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione, finalizzata ad una capacità di trasporto superiore di oltre 5 volte agli attuali livelli di traffico, oltretutto alla luce del fatto che detti livelli anziché in crescita esponenziale come si prevedeva nel passato sono scesi del 9% solamente nell’ultimo anno. Appare inoltre lapalissiano come il costo esorbitante di un’opera di queste dimensioni, stimato in circa 11 miliardi di euro per la sola competenza italiana e passibile (come l’esperienza ci insegna) di ulteriori notevoli incrementi durante i 15 anni di lavori, non potrà assolutamente essere ammortizzato attraverso i ricavi derivanti da un traffico composto da elementi di sola fantasia.
Tale costo ricadrà per forza di cose sulle spalle di tutta la collettività con effetti a dir poco disastrosi.
La storia che ho voluto raccontarvi si è ormai trasformata in pura cronaca di attualità, una cronaca che vede riproporsi la biblica lotta di Davide contro Golia. Da un lato i cittadini della Valle di Susa e tutti gli abitanti dell’area torinese che hanno avuto la sensibilità e la capacità di riuscire a comprendere i termini del problema pur attraverso la disinformazione messa in atto dai grandi media asserviti alle ragioni della politica. Insieme a loro i sindaci dei comuni della Valle, alcuni studiosi, medici ed esperti che si manifestano quali spiriti liberi non aggiogati al carro dei potenti, nonché esigue frange della politica appartenenti ai Verdi ed a Rifondazione Comunista.
Dall’altro le arroganti falangi del potere, i ministri del governo insieme agli onorevoli dell’opposizione, fino ad arrivare al Presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso (donna che per l’occasione è giunta al punto di abiurare ogni parola esperita in tanti anni di militanza ambientalista) ed al sindaco di Torino Sergio Chiamparino.Tutti uniti, coesi, forti di quella protervia che deriva loro dalla consapevolezza di poter gestire l’opinione pubblica attraverso le televisioni, i giornali e gli esperti compiacenti, convinti di potere reprimere ogni forma di protesta con la furia belluina della polizia e la militarizzazione del territorio.
Il primo scontro si è già svolto il 31 ottobre, quando il potere ha usato i manganelli della polizia per bastonare i tanti, tantissimi cittadini, nonché alcuni sindaci che si erano inerpicati sulla montagna sopra Monpantero nel tentativo d’impedire la conquista del primo lembo della loro terra, sul quale sarebbe stata installata la prima trivella a sancire di fatto l’inizio dell’opera.
Il lembo di terra è stato conquistato solo con l’ausilio dell’inganno, in maniera probabilmente illegale ed è ora presidiato dalla polizia. Le trivelle non hanno ancora potuto mettersi in moto ma la Presidente della regione Piemonte Mercedes Bresso ed il sindaco di Torino Sergio Chiamparino si sono già espressi con durezza, affermando che la ferrovia Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione si farà in ogni caso, poiché si tratta di un progetto irrinunciabile e nessun tipo di protesta riuscirà ad impedirne la realizzazione. In risposta al rifiuto di ogni dialogo che non passi attraverso l’uso dei manganelli da parte delle istituzioni, il 16 novembre tutta la Valle di Susa si è fermata, unita in uno sciopero generale contro l’ennesima violenza perpetrata nei confronti del territorio e dei suoi abitanti.
Almeno 80.000 persone di tutte le età e di tutti i ceti sociali hanno ribadito pacificamente ma con estrema fermezza il proprio no alle trivellazioni e alla militarizzazione della loro terra.Martedì 6 dicembre con il favore delle tenebre, poliziotti e carabinieri in assetto da guerra hanno massacrato a bastonate le 40 persone inoffensive che occupavano il presidio di Venaus, per protesta contro l’apertura di un secondo cantiere.
Giovedì 8 dicembre, sotto alla luce del sole, la gente della Valsusa, come una marea umana si è riversata a Venaus, ha ripreso possesso della propria terra e ricostruito il presidio.La storia ovviamente non finisce qui e come tutte le storie potrà riservare infinite sorprese anche a coloro che si sentono onnipotenti quando tengono in mano il bastone del potere.
I contestatori NO TAV della Valle di Susa potrebbero un giorno di questi apparire al resto d’Italia nella loro veste reale, non uno sparuto gruppo di estremisti ecologisti, no global, luddisti, nemici del progresso, bensì semplicemente tanti cittadini coraggiosi disposti a mettersi in gioco e lottare per difendere i loro diritti, la propria salute e la propria terra. Quel giorno potrebbero diventare tantissimi e poi ancora di più, così tanti da uscire dall’invisibilità nella quale si è cercato per lungo tempo di nasconderli, troppi perché i poliziotti possano bastonarli tutti, ed allora forse inizierà una storia diversa che parlerà di treni costruiti per essere utili alla qualità di vita dell’uomo e non di uomini sacrificati nel nome dei treni e della velocità.
La storia che voglio raccontarvi parla di grandi capitali e di piccoli uomini, di treni che correranno vuoti a 300 km/h dentro a gallerie scavate nell’uranio, di società private costituite con il denaro pubblico, piramidi di Cheope fatte di smarino e grattacieli di fibre d’amianto, di cittadini che difendono i propri diritti additati come canaglie e di canaglie senza scrupoli … … che si fingevano persone attente all’ambiente e ai diritti dei propri cittadini, di sindaci bastonati dalla polizia in una Valle decisa a resistere all’ennesimo stupro del proprio territorio, di come un grande investimento non produrrà altro che impoverimento, di quando le parole degli esperti vengono trasformate in sussurri ed il biascicare incompetente dei politici assurge a realtà incontrovertibile.
La storia inizia il 7 agosto 1991 con la nascita di Tav spa, la società a capitale misto pubblico e privato deputata a costruire in Italia quasi 900 km di linee ferroviarie per i treni ad alta velocità.In realtà dopo il disastroso risultato economico del tunnel sotto la Manica non si riscontrava assolutamente traccia di privati disposti a rischiare il proprio capitale nella costruzione di grandi infrastrutture e quello di presentare Tav spa come una società a capitale misto era un mero artificio volto a far si che l’Italia potesse rispettare i parametri di Maastricht che imponevano il rapporto deficit-pil al 3%. Lo Stato garantì il finanziamento del 40% in conto capitale, mentre finanziò il restante 60% (quello di appannaggio dei privati) attraverso prestiti bancari, accollandosi gli interessi degli stessi fino al completamento dell’opera.
Il 10 marzo 1998 le Ferrovie di Stato che detenevano la maggioranza del capitale pubblico acquisirono il 100% di Tav spa e dal primo gennaio del 2003, ormai nell’ambito della “legge obiettivo” Tav spa è entrata nell’orbita di Infrastrutture spa, il cui azionista unico è la Cassa Depositi e Prestiti.
Tutto questo gioco di scatole cinesi, nato una quindicina di anni fa dalla fervida fantasia dell’allora ministro del Bilancio Cirino Pomicino e perfezionato poi dal governo Berlusconi sotto il nome di “project financing” ha come unico scopo quello di permettere allo Stato di contrarre enormi debiti, senza però doverli iscrivere nel proprio Bilancio, evitando così che essi incidano nei parametri del Patto Europeo di stabilità. I privati esistono veramente ma rivestono il ruolo di General Contractor grazie al perfezionamento di un’altra “intuizione” del buon Cirino Pomicino.Fiat IRI ed ENI (i General Contractor) sono concessionari con l’esclusione della gestione, hanno cioè tutti i poteri del committente pubblico nella gestione dei subappalti, nella direzione dei lavori, negli espropri, ma non hanno poi la gestione diretta dell’opera, (caso unico in Europa) per cui il loro solo interesse, essendo disancorati dalla successiva gestione, sarà quello di fare durare i lavori il più a lungo possibile al fine di fare levitare al massimo la spesa.
Inoltre il General Contractor a differenza del concessionario tradizionale di lavori o servizi pubblici potrà affidare i lavori a chi vuole anche con trattativa privata ed essendo un privato non sarà mai perseguibile per corruzione, in quanto eventuali tangenti potranno essere giustificate sotto forma di “provvigioni”.
Un’architettura senza dubbio ingegnosa attraverso la quale si trasferisce tutto il rischio d’impresa dal privato allo Stato che alla fine dei lavori sarà però costretto a restituire i prestiti delle banche, aprendo così una voragine senza fondo nella quale precipiterà giocoforza la nostra già fragile economia.
La conseguenza di tutto ciò è che il progetto dell’Alta Velocità, presentato nel 1991 con un costo previsto di 26.180 miliardi di lire, rischierà invece di costare, una volta terminato in un lontano futuro, circa 80 miliardi di euro e gli italiani ne pagheranno i debiti fino al 2040 ad un ritmo di 2 miliardi e 300 milioni di euro l’anno. Ci sarebbero molte altre cose da raccontare concernenti questi 14 anni nei quali il progetto Alta Velocità ha preso forma e mosso i suoi primi passi, anni nei quali la zona del Mugello è stata devastata dalle gallerie con conseguenze idrogeologiche irreversibili, anni nei quali personaggi legati a doppio filo alla politica e all’imprenditoria come Necci Lorenzo, Pacini Battaglia, Icalza Ercole e molti altri si sono spartiti tangenti miliardarie, sono stati indagati, hanno corrotto giudici, vinto e perso processi, il tutto continuando a mantenere sempre posizioni preminenti all’interno delle istituzioni.
Anni di grossi guadagni per chi come l’attuale ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi, attraverso la Roksoil azienda di famiglia si è aggiudicato un numero infinito di opere e consulenze o chi come Romano Prodi fondò la Nomisma, società bolognese indagata nel 1992 nell’ambito di una consulenza miliardaria sull’Alta Velocità, le cui conclusioni a fronte di un’analisi quanto mai approfondita e retribuita si manifestavano nell’enunciato che “la velocità fa risparmiare tempo”. Anni nei quali 13.779 lavoratori impegnati nel progetto Tav hanno lavorato a ciclo continuo con turni che potevano impegnarli anche per 48 ore di seguito, in gallerie dove l’aria era inquinata, la luce poca ed i rischi molti, come molti sono stati fra loro gli operai deceduti in incidenti sul lavoro. Basti pensare che nei soli primi 6 mesi di lavori sulla tratta Torino - Novara si sono annoverati 350 infortuni dei quali 2 mortali.
Ma la storia che voglio raccontarvi è una storia ad Alta Velocità, dove non esiste tempo per soffermarsi a riflettere, valutare i giudizi degli esperti, confrontarsi con le istituzioni locali. Esiste solamente una montagna di denaro senza fine sulla quale gettarsi con voracità assassina ed una montagna di roccia da sventrare al più presto per garantire la sopravvivenza del bengodi.
Il progetto per la costruzione della Linea ferroviaria Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione si è evidenziato fin da subito come il più scellerato ed economicamente dispendioso dell’intero programma Tav e la nostra storia vuole entrare nel merito delle motivazioni che hanno spinto decine di migliaia di persone ad osteggiarlo con veemenza fin dalla sua nascita. L’intenzione dei progettisti è quella di costruire un tracciato che partendo da Settimo Torinese (periferia nord est di Torino) attraversi buona parte della Valle di Susa per poi sbucare in Francia attraverso un tunnel di 52 km sotto il massiccio dell’Ambin.Tale tracciato accreditato come parte integrante di un fantomatico “Corridoio 5 Lisbona – Kiev” viene definito indispensabile ed irrinunciabile dalla maggior parte degli uomini politici di ogni razza e colore, nonché dalla Confindustria e da tutti i poteri forti che attendono di spartirsi le enormi somme di denaro garantite dall’opera per almeno i prossimi 15 anni.
Le ragioni addotte per suffragare la necessità assoluta del progetto si sono sempre limitate a demagogiche affermazioni secondo le quali la Torino – Lione sarebbe indispensabile al rilancio del Piemonte che senza di essa resterebbe isolato dall’Europa, oppure a proclami privi di fondamento secondo i quali l’opera risulta indispensabile per l’innovazione del sistema dei trasporti italiano e garantirà un enorme ritorno sia dal punto di vista economico che da quello occupazionale. E’ stata anche ventilata, in realtà senza troppa convinzione, la necessità di garantire attraverso l’opera la gestione del supposto futuro incremento dei flussi passeggeri e commerciali, nonché ipotizzato un futuro trasferimento alla rotaia del traffico su gomma tramite le navette in grado di trasportare i Tir, con conseguenze positive in termini d’inquinamento ambientale. Quando le commissioni tecniche, scientifiche e gli esperti hanno iniziato nel corso degli anni ad analizzare il progetto nelle sue varie sfaccettature è però emersa una realtà in profonda distonia con le roboanti dichiarazioni della folta schiera di politici, pennivendoli e mestieranti vari che si sono prodigati e si prodigano nel tentativo di dare alla Torino – Lione una patente di “opera necessaria” che non ha assolutamente ragione di esistere.
Quella di un Piemonte isolato dal resto d’Europa è un’affermazione talmente assurda da meritare di albergare solo nella fantasia di una mente malata. Lungo la sola la Valle di Susa passano infatti attualmente circa il 35% delle merci che valicano le Alpi, troppe veramente per una regione in stato d’isolamento.
La Valle di Susa è una valle alpina larga in media solamente 1,5 km con abbondanza d’insediamenti abitativi ed industriali. Attraverso di essa già oggi passano un’autostrada, due strade statali, una linea ferroviaria passeggeri e merci a doppio binario, un fiume, molteplici strade provinciali, acquedotti, condutture del gas, linee elettriche aeree ed interrate. Dovrebbe essere evidente per chiunque come una realtà naturale già così fortemente violentata non sia assolutamente in grado di sostenere il peso di nuove pesanti infrastrutture, se non al prezzo di conseguenze disastrose sia per il territorio che per la qualità di vita di coloro che lo abitano.
La costruzione della Torino – Lione comporterà nella sola parte italiana l’estrazione dalle gallerie di 16 milioni di metri cubi di smarino (almeno 6 volte il volume della piramide di Cheope) per i quali occorreranno 2.500.000 passaggi di camion solo per stoccare nelle varie discariche i materiali di risulta. I recenti studi d’ingegneria dei trasporti affermano che quando tra una quindicina di anni l’opera sarà terminata solo l’1% dell’attuale traffico su gomma si trasferirà sulla ferrovia. La contropartita di questo deludente risultato sarà pagata in maniera salatissima dai cittadini della Valle e della cintura di Torino, in quanto si calcola che durante questi 15 anni almeno 500 camion circoleranno giorno e notte per il trasporto dei materiali di scavo dai tunnel ai luoghi di stoccaggio, con il conseguente aumento d’inquinanti, polveri e rumore. Oltre ai grossi rischi di natura idrogeologica focalizzati nella bassa valle, ad elevato rischio alluvionale, le cui conseguenze potrebbero ripercuotersi in maniera drammatica anche sulla città di Torino, gli studi hanno messo in evidenza due punti di estrema criticità del progetto Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione.
Il primo riguarda la galleria di 23 km Musinè/Gravio che dovrebbe attraversare un terreno caratterizzato da rocce ricche di amianto. Secondo le analisi commissionate dalla Rete Ferroviaria Italiana ai geologi dell’Università di Siena il volume previsto di materiale estratto contenente amianto dovrebbe essere di almeno 1.150.000 metri cubi. Non risulta sia stato previsto alcun piano di sicurezza volto ad impedire la dispersione delle fibre d’amianto durante le fasi di lavorazione e di stoccaggio. La metà del materiale estratto contenente amianto (paragonabile per volume ad un grattacielo alto 400 metri) è previsto sia stoccata in un sito a cielo aperto nei pressi del comune di Almese, senza nessuna protezione e giocoforza esposto ai forti venti di fhon che spesso soffiano nella valle (mediamente per 40 giorni all’anno) in direzione Torino.
In un dossier curato dal dottor Edoardo Gays, oncologo dell’ospedale San Luigi di Orbassano viene sottolineato come l’amianto, riguardo al quale non esiste per l’uomo una soglia minima di tollerabilità, causa oltre ad altre affezioni il mesotelioma pleurico, un tumore maligno che si manifesta anche dopo 15, 20 anni dall’inalazione delle particelle, esso porta al decesso in media entro 9 mesi dal momento della diagnosi ed ha un tasso di mortalità nell’ordine del 100%. Sempre il dottor Gays nel suo studio esprime grossa preoccupazione per le conseguenze degli scavi e dello stoccaggio dei materiali contenenti amianto sulla salute dei cittadini ed afferma che alla luce di queste condizioni le morti per mesotelioma rischieranno di aumentare di oltre 100 volte su scala regionale.
Il secondo punto critico è costituito dal tunnel di 52 km che dovrà correre sotto il massiccio dell’Ambin, preceduto da una galleria di prospezione lunga oltre 7 km e del diametro di 6 metri.All’interno del massiccio dell’Ambin sono infatti presenti numerosi giacimenti di uranio, come documentato dal CNR fin dal 1965. Per maggior precisione il materiale presente è pechblenda, una forma particolarmente radioattiva. Una parte dello smarino estratto sarà perciò con tutta probabilità carica di radioattività ed estremamente pericolosa sia in fase di scavo che di stoccaggio.
L’uranio si disperde nell’aria e può essere inalato, inoltre contamina le falde acquifere e va ad inquinare i corsi d’acqua che possono essere utilizzati per l’irrigazione. L’uranio se inalato o ingerito provoca contaminazione interna e può essere causa di linfomi e leucemie.Occorre anche sottolineare che la distribuzione delle falde acquifere all’interno del massiccio dell’Ambin è estremamente complessa e le conseguenze degli scavi rischiano di compromettere gravemente il sistema idrografico dell’area, come già avvenuto nel corso degli scavi delle gallerie per la linea Alta Velocità Firenze – Bologna nella zona del Mugello.
Se alla luce delle analisi fin qui esposte il progetto della linea ferroviaria Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione si dimostra in maniera incontrovertibile un’opera altamente pericolosa per la salute e l’incolumità dei cittadini, non solo della Valle di Susa ma anche della cintura torinese e del capoluogo stesso, anche gli studi inerenti all’utilità ed al ritorno economico del tracciato mostrano imbarazzanti incongruenze nel merito delle quali non si può evitare di entrare.
I traffici di lunga distanza sull’asse Lisbona – Kiev, che motiverebbero il concetto di “Corridoio 5” sono ad oggi irrilevanti. Il traffico passeggeri di lunga distanza si muove e si muoverà in aereo, poiché risulta ampiamente dimostrato come le ferrovie ad Alta Velocità non siano assolutamente competitive nelle distanze superiori ai 500 km. I traffici merci di lunga distanza sono estremamente esigui, la velocità non è un requisito fondamentale (basta osservare il successo delle ferrovie statunitensi con velocità commerciali nell’ordine dei 30 km/h.) anzi contribuisce ad aumentare i costi a dismisura, favorendo sull’asse in oggetto l’alternativa marittima.
L’attuale linea ferroviaria Torino – Modane è oggi utilizzata solamente al 38% della sua capacità. Le navette predisposte per il caricamento dei Tir sono state usate solo durante il breve periodo di chiusura del Frejus, altrimenti partono ogni giorno vuote. Gli unici due treni giornalieri del collegamento ferroviario diretto Torino – Lione sono stati soppressi per mancanza di passeggeri. Una scarsità di traffico davvero disarmante per una direttrice così importante da giustificare l’investimento di 21 miliardi di euro (la metà dei quali di competenza italiana) al fine di dotarla di una linea ad Alta Velocità.
Negli anni passati, quando ancora la pesante crisi economica europea non si era manifestata in tutta la sua interezza, il governo aveva affidato ad una società molto quotata, la Setec Economie il compito di valutare i benefici dell’opera. Tale società aveva analizzato i volumi tendenziali di traffico per gli anni a venire, stimando con un ottimismo che alla luce della contrazione odierna del mercato non può che far sorridere, un volume di traffico che avrebbe dovuto attestarsi nel 2015 intorno ai 174 treni/giorno. La linea esistente, una volta effettuati gli interventi di potenziamento previsti, molti dei quali già in corso dovrebbe consentire già nel 2008 una capacità di circa 220 treni/giorno, un valore ampiamente compatibile con qualsiasi ottimistica previsione.
Alla luce di questi dati si stenta veramente a comprendere, se non nell’ottica della spartizione mafiosa dei finanziamenti pubblici, per quale arcana ragione anziché perseguire lo sfruttamento della linea attuale ottimizzandone le potenzialità, s’intenda invece portare a termine un progetto totalmente inutile come quello della linea ferroviaria Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione, finalizzata ad una capacità di trasporto superiore di oltre 5 volte agli attuali livelli di traffico, oltretutto alla luce del fatto che detti livelli anziché in crescita esponenziale come si prevedeva nel passato sono scesi del 9% solamente nell’ultimo anno. Appare inoltre lapalissiano come il costo esorbitante di un’opera di queste dimensioni, stimato in circa 11 miliardi di euro per la sola competenza italiana e passibile (come l’esperienza ci insegna) di ulteriori notevoli incrementi durante i 15 anni di lavori, non potrà assolutamente essere ammortizzato attraverso i ricavi derivanti da un traffico composto da elementi di sola fantasia.
Tale costo ricadrà per forza di cose sulle spalle di tutta la collettività con effetti a dir poco disastrosi.
La storia che ho voluto raccontarvi si è ormai trasformata in pura cronaca di attualità, una cronaca che vede riproporsi la biblica lotta di Davide contro Golia. Da un lato i cittadini della Valle di Susa e tutti gli abitanti dell’area torinese che hanno avuto la sensibilità e la capacità di riuscire a comprendere i termini del problema pur attraverso la disinformazione messa in atto dai grandi media asserviti alle ragioni della politica. Insieme a loro i sindaci dei comuni della Valle, alcuni studiosi, medici ed esperti che si manifestano quali spiriti liberi non aggiogati al carro dei potenti, nonché esigue frange della politica appartenenti ai Verdi ed a Rifondazione Comunista.
Dall’altro le arroganti falangi del potere, i ministri del governo insieme agli onorevoli dell’opposizione, fino ad arrivare al Presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso (donna che per l’occasione è giunta al punto di abiurare ogni parola esperita in tanti anni di militanza ambientalista) ed al sindaco di Torino Sergio Chiamparino.Tutti uniti, coesi, forti di quella protervia che deriva loro dalla consapevolezza di poter gestire l’opinione pubblica attraverso le televisioni, i giornali e gli esperti compiacenti, convinti di potere reprimere ogni forma di protesta con la furia belluina della polizia e la militarizzazione del territorio.
Il primo scontro si è già svolto il 31 ottobre, quando il potere ha usato i manganelli della polizia per bastonare i tanti, tantissimi cittadini, nonché alcuni sindaci che si erano inerpicati sulla montagna sopra Monpantero nel tentativo d’impedire la conquista del primo lembo della loro terra, sul quale sarebbe stata installata la prima trivella a sancire di fatto l’inizio dell’opera.
Il lembo di terra è stato conquistato solo con l’ausilio dell’inganno, in maniera probabilmente illegale ed è ora presidiato dalla polizia. Le trivelle non hanno ancora potuto mettersi in moto ma la Presidente della regione Piemonte Mercedes Bresso ed il sindaco di Torino Sergio Chiamparino si sono già espressi con durezza, affermando che la ferrovia Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione si farà in ogni caso, poiché si tratta di un progetto irrinunciabile e nessun tipo di protesta riuscirà ad impedirne la realizzazione. In risposta al rifiuto di ogni dialogo che non passi attraverso l’uso dei manganelli da parte delle istituzioni, il 16 novembre tutta la Valle di Susa si è fermata, unita in uno sciopero generale contro l’ennesima violenza perpetrata nei confronti del territorio e dei suoi abitanti.
Almeno 80.000 persone di tutte le età e di tutti i ceti sociali hanno ribadito pacificamente ma con estrema fermezza il proprio no alle trivellazioni e alla militarizzazione della loro terra.Martedì 6 dicembre con il favore delle tenebre, poliziotti e carabinieri in assetto da guerra hanno massacrato a bastonate le 40 persone inoffensive che occupavano il presidio di Venaus, per protesta contro l’apertura di un secondo cantiere.
Giovedì 8 dicembre, sotto alla luce del sole, la gente della Valsusa, come una marea umana si è riversata a Venaus, ha ripreso possesso della propria terra e ricostruito il presidio.La storia ovviamente non finisce qui e come tutte le storie potrà riservare infinite sorprese anche a coloro che si sentono onnipotenti quando tengono in mano il bastone del potere.
I contestatori NO TAV della Valle di Susa potrebbero un giorno di questi apparire al resto d’Italia nella loro veste reale, non uno sparuto gruppo di estremisti ecologisti, no global, luddisti, nemici del progresso, bensì semplicemente tanti cittadini coraggiosi disposti a mettersi in gioco e lottare per difendere i loro diritti, la propria salute e la propria terra. Quel giorno potrebbero diventare tantissimi e poi ancora di più, così tanti da uscire dall’invisibilità nella quale si è cercato per lungo tempo di nasconderli, troppi perché i poliziotti possano bastonarli tutti, ed allora forse inizierà una storia diversa che parlerà di treni costruiti per essere utili alla qualità di vita dell’uomo e non di uomini sacrificati nel nome dei treni e della velocità.
giovedì 3 novembre 2005
Le stelle di David
Marco Cedolin
Giuliano Ferrara, l'erudito direttore del Foglio, fra i maggiori apostoli in Italia della filosofia neocon tanto cara all'amministrazione Bush e ai firmatari del Project for New American Century, è riuscito in un'impresa tanto miracolistica quanto senza precedenti. L'impresa di riunire sotto ad una sola bandiera, quella israeliana del democratico ed illuminato governo Sharon, i leader di quasi tutti i maggiori partiti italiani di governo e di opposizione.
L'apostata Fini Gianfranco al fianco di Piero Fassino che comunista lo è forse stato solo ai tempi della tata, il democristiano Follini accanto all'ex democristiano Rutelli, il leghista Calderoli ed il verde Pecoraro Scanio a condividere il medesimo colore che è anche quello dell'immarcescibile La Malfa, e poi tanti altri, dal barbassore Massimo Cacciari al balioso Vittorio Feltri, dal telegenico Mentana al novello Cagliostro Clemente Mastella e poi Giovanardi, Veltroni, Boselli e ancora altri, tutti uniti come vecchi amici nel carnevalare con tanto di fiaccole e lumini dinanzi all'ambasciata dell'Iran.
“Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”, quanta saggezza sconosciuta ai politici nostrani, alligna nelle parole dell'antico pensiero latino,
Si percepisce come l'impressione di essere tornati indietro nel tempo fino a circa tre anni fa. Allora, quando ai più capitò di errare non vi erano fiaccole e la bandiera nel nome della quale ci si ergeva a paladini dell'ordine mondiale non era quella israeliana, bensì il più classico stendardo a stelle e strisce, identici però a quelli di oggi erano i concetti, i proclami, le requisitorie.
Esisteva un satana, nella persona di Saddam Hussein ed una nazione stipata all'inverosimile di armi di distruzione di massa e pronta ad assalire ferocemente gli stati democratici; l'Iraq.
L'epilogo di quei proclami purtroppo è noto a tutti, l'Iraq è stato annientato militarmente e culturalmente e vive da quasi tre anni nella babele di una guerra civile permanente, resa ancora più cruenta dal permanere dell'occupazione armata. Una nazione tecnologicamente e socialmente progredita è stata costretta ad un regresso di almeno due secoli, sprofondando nella povertà e nella barbarie.
Tutto ciò fu compiuto, come tutti sappiamo, nel nome della sicurezza mondiale per preservare la democrazia da armi di distruzione di massa che non esistevano né erano mai esistite e dalla ferale pericolosità di un paese che in realtà non è mai stato pericoloso per nessuno, né avrebbe potuto esserlo.
Oggi i soliti noti stanno apprestandosi a perseverare e lo fanno senza mostrare in verità molta fantasia.
Esiste nuovamente un satana contro il quale tuonare, nella persona di Mahmoud Ahmadinejad, presidente democraticamente eletto della Repubblica Islamica iraniana, che ha pubblicamente contestato l'esistenza dello stato d'Israele ed esiste nuovamente una nazione, l'Iran, che si appresta ad assalire Israele e le democrazie occidentali con l'ausilio di fantomatici letali ordigni nucleari in fase di costruzione.
In realtà le parole di Ahmadinejad, senza dubbio infelici, non dovrebbero stupire più di tanto Ariel Sharon ed il governo israeliano che fino a ieri non con le parole bensì con i fatti hanno cancellato dalla cartina geografica lo stato palestinese, con la tacita collaborazione di tutti i fiaccolanti che si dedicheranno alle luminarie di questa sera.
Ahmadinejad occorre ricordarlo è presidente di un paese che nei 25 anni trascorsi dalla cacciata dello Scià si è sempre dimostrato uno stato pacifico che non ha mai creato alcun problema di ordine internazionale. Ha combattuto un'unica guerra (non di aggressione) contro l'Iraq al tempo armato e finanziato dagli Stati Uniti e dall'occidente.
L'Iran è un paese che mai e poi mai potrebbe creare problemi di aggressione militare ad Israele che è uno degli stati meglio armati, anche dal punto di vista nucleare, al mondo.
Nonostante ciò gli Stati Uniti lo hanno sempre sottoposto ad un severo isolamento economico e commerciale, arrivando perfino a minacciare misure analoghe nei confronti di qualunque paese commerciasse con esso (legge Helms Burton del 1996).
Nonostante ciò il congresso statunitense ha stanziato negli anni milioni di dollari per finanziare attraverso la CIA i gruppi terroristici “Muhjiaeddin e Khalq” nell'intento di destabilizzare l'unità del paese e riportare al governo i monarchici raccolti intorno a Reza Palhavi, figlio di quello Scià che si è macchiato di ogni genere di crimine contro l'umanità.
Nonostante ciò Stati Uniti ed Unione Europea oltre ovviamente ad Israele hanno fatto e stanno facendo pressioni fortissime sull'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (facente capo all'ONU) affinché dichiari fuorilegge il programma nucleare iraniano finalizzato esclusivamente a scopi di produzione energetica, come le numerose ispezioni hanno negli anni confermato.La mia unica speranza è che fra qualche mese buona parte di coloro che si apprestano a manifestare con tanto di fiaccole stasera, non siano costretti a ritrovarsi (con la poca coerenza che da sempre li contraddistingue) a sfilare per le strade dopo avere rispolverato in soffitta l'ormai dimenticata bandiera della pace, quella con le tinte dell'arcobaleno ricordate?
Giuliano Ferrara, l'erudito direttore del Foglio, fra i maggiori apostoli in Italia della filosofia neocon tanto cara all'amministrazione Bush e ai firmatari del Project for New American Century, è riuscito in un'impresa tanto miracolistica quanto senza precedenti. L'impresa di riunire sotto ad una sola bandiera, quella israeliana del democratico ed illuminato governo Sharon, i leader di quasi tutti i maggiori partiti italiani di governo e di opposizione.
L'apostata Fini Gianfranco al fianco di Piero Fassino che comunista lo è forse stato solo ai tempi della tata, il democristiano Follini accanto all'ex democristiano Rutelli, il leghista Calderoli ed il verde Pecoraro Scanio a condividere il medesimo colore che è anche quello dell'immarcescibile La Malfa, e poi tanti altri, dal barbassore Massimo Cacciari al balioso Vittorio Feltri, dal telegenico Mentana al novello Cagliostro Clemente Mastella e poi Giovanardi, Veltroni, Boselli e ancora altri, tutti uniti come vecchi amici nel carnevalare con tanto di fiaccole e lumini dinanzi all'ambasciata dell'Iran.
“Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”, quanta saggezza sconosciuta ai politici nostrani, alligna nelle parole dell'antico pensiero latino,
Si percepisce come l'impressione di essere tornati indietro nel tempo fino a circa tre anni fa. Allora, quando ai più capitò di errare non vi erano fiaccole e la bandiera nel nome della quale ci si ergeva a paladini dell'ordine mondiale non era quella israeliana, bensì il più classico stendardo a stelle e strisce, identici però a quelli di oggi erano i concetti, i proclami, le requisitorie.
Esisteva un satana, nella persona di Saddam Hussein ed una nazione stipata all'inverosimile di armi di distruzione di massa e pronta ad assalire ferocemente gli stati democratici; l'Iraq.
L'epilogo di quei proclami purtroppo è noto a tutti, l'Iraq è stato annientato militarmente e culturalmente e vive da quasi tre anni nella babele di una guerra civile permanente, resa ancora più cruenta dal permanere dell'occupazione armata. Una nazione tecnologicamente e socialmente progredita è stata costretta ad un regresso di almeno due secoli, sprofondando nella povertà e nella barbarie.
Tutto ciò fu compiuto, come tutti sappiamo, nel nome della sicurezza mondiale per preservare la democrazia da armi di distruzione di massa che non esistevano né erano mai esistite e dalla ferale pericolosità di un paese che in realtà non è mai stato pericoloso per nessuno, né avrebbe potuto esserlo.
Oggi i soliti noti stanno apprestandosi a perseverare e lo fanno senza mostrare in verità molta fantasia.
Esiste nuovamente un satana contro il quale tuonare, nella persona di Mahmoud Ahmadinejad, presidente democraticamente eletto della Repubblica Islamica iraniana, che ha pubblicamente contestato l'esistenza dello stato d'Israele ed esiste nuovamente una nazione, l'Iran, che si appresta ad assalire Israele e le democrazie occidentali con l'ausilio di fantomatici letali ordigni nucleari in fase di costruzione.
In realtà le parole di Ahmadinejad, senza dubbio infelici, non dovrebbero stupire più di tanto Ariel Sharon ed il governo israeliano che fino a ieri non con le parole bensì con i fatti hanno cancellato dalla cartina geografica lo stato palestinese, con la tacita collaborazione di tutti i fiaccolanti che si dedicheranno alle luminarie di questa sera.
Ahmadinejad occorre ricordarlo è presidente di un paese che nei 25 anni trascorsi dalla cacciata dello Scià si è sempre dimostrato uno stato pacifico che non ha mai creato alcun problema di ordine internazionale. Ha combattuto un'unica guerra (non di aggressione) contro l'Iraq al tempo armato e finanziato dagli Stati Uniti e dall'occidente.
L'Iran è un paese che mai e poi mai potrebbe creare problemi di aggressione militare ad Israele che è uno degli stati meglio armati, anche dal punto di vista nucleare, al mondo.
Nonostante ciò gli Stati Uniti lo hanno sempre sottoposto ad un severo isolamento economico e commerciale, arrivando perfino a minacciare misure analoghe nei confronti di qualunque paese commerciasse con esso (legge Helms Burton del 1996).
Nonostante ciò il congresso statunitense ha stanziato negli anni milioni di dollari per finanziare attraverso la CIA i gruppi terroristici “Muhjiaeddin e Khalq” nell'intento di destabilizzare l'unità del paese e riportare al governo i monarchici raccolti intorno a Reza Palhavi, figlio di quello Scià che si è macchiato di ogni genere di crimine contro l'umanità.
Nonostante ciò Stati Uniti ed Unione Europea oltre ovviamente ad Israele hanno fatto e stanno facendo pressioni fortissime sull'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (facente capo all'ONU) affinché dichiari fuorilegge il programma nucleare iraniano finalizzato esclusivamente a scopi di produzione energetica, come le numerose ispezioni hanno negli anni confermato.La mia unica speranza è che fra qualche mese buona parte di coloro che si apprestano a manifestare con tanto di fiaccole stasera, non siano costretti a ritrovarsi (con la poca coerenza che da sempre li contraddistingue) a sfilare per le strade dopo avere rispolverato in soffitta l'ormai dimenticata bandiera della pace, quella con le tinte dell'arcobaleno ricordate?
mercoledì 26 ottobre 2005
Fra demonio e santità
Marco Cedolin
Quante schegge di realtà si abbarbicano come edera ingiallita sul tendone di quel circo equestre che siamo soliti definire informazione.
Quanti mostri, miti, demoni e santi, nascono dalla fantasia di pennivendoli imbolsiti e tele urlatori che creano opinione, nascono per poi scolorare come foglie secche che frusciano nel vento tiepido di una giornata di autunno.
La storia recente di Sergio Cofferati, il cinese, come amavano chiamarlo con simpatia i suoi tanti estimatori, è un fulgido esempio di quanto effimeri siano i messaggi attraverso i quali i media forgiano le nostre opinioni ed il nostro pensiero.
Il quotidiano Liberazione ha dedicato a Cofferati la propria prima pagina, accusandolo di avere ordinato alla polizia di bastonare un centinaio di studenti i quali, capeggiati dal deputato dei Verdi Paolo Cento e da un dirigente locale di Rifondazione Comunista, cercavano di entrare con la forza nel municipio di Bologna al grido di "Cofferati fascista."
Sergio Cofferati, proprio lui, il paladino dell'articolo 18, l'unico uomo che nell'ultimo decennio sia riuscito ad infiammare gli animi dei lavoratori, a riempire di folla piazze e palazzetti dello sport, a dare ancora a molti italiani l'illusione di potere lottare per i propri diritti, viene additato dai giovani di sinistra come fascista e dalla stampa come mandante delle cariche dei celerini, quasi si trattasse di un novello Scelba.
Dove alligna giunti a questo punto la realtà e quali mezzi abbiamo per interpretarla e farla propria?
Chi è in realtà Sergio Cofferati? Il cinese che si profondeva nelle crociate per i diritti dei lavoratori e solo un paio di anni fa si poteva definire senza tema di smentita l'uomo più popolare ed amato della sinistra, tanto da farne un papabile leader della coalizione, oppure un imborghesito reazionario, amico dei manganelli e nemico degli studenti universitari al punto da fare calare violentemente il randello sulle loro schiene?
Probabilmente né l'uno né l'altro, forse semplicemente un uomo in gamba, ricco di carisma ma povero di coerenza e pertanto incline a lasciarsi manovrare.
Una figura che la sinistra ha usato sfruttandone la crescente popolarità, quando ad inizio legislatura ancora fingeva di combattere il governo Berlusconi sui temi del lavoro e dell'occupazione e forse carezzava l'idea di proporre un uomo nuovo a guidare la coalizione per le prossime elezioni.
Una figura poi divenuta scomoda ed ingombrante allorquando il centrosinistra ha deciso di riesumare la salma di Romano Prodi, ormai da tempo mummificata a Strasburgo.
Quale soluzione migliore a quel punto che parcheggiare il cinese in quel di Bologna, attendendo che la diminuita esposizione mediatica ne intaccasse la popolarità.
Presiedere la gestione di una città, con tutte le sue problematiche e contraddizioni è certo più difficile e meno remunerativo in termini di popolarità che non guidare un sindacato che si fingeva impegnato in una battaglia epocale come quella sull'articolo 18.
Ho scritto fingeva poiché in realtà il sindacato capeggiato da Cofferati in quegli anni finse soltanto di porsi a baluardo dei diritti dei lavoratori, preservando il famoso articolo 18 dall'attacco peraltro velleitario ed improbabile del governo Berlusconi.
Mentre quegli stessi diritti venivano annientati in profondità attraverso la riforma Biagi, nei confronti della quale il sindacato si guardò bene dal manifestare la benché minima opposizione.
Se è vero che Cofferati in realtà fece ben poco per preservare i diritti di coloro che lo osannavano quando era leader della CGIL, altrettanto vero è che non mi pare stia operando a Bologna nella veste di squadrista e di picchiatore. Ma forse l'essere diventato demonio senza colpa è solo la conseguenza di essere stato santo senza merito, godiamoci questa salomonica riflessione, nell'attesa che i media forgino un nuovo mito, ho la netta sensazione che l'amatissima e Celentanissima RockPolitik ne abbia già messi in cantiere almeno un paio.
Quante schegge di realtà si abbarbicano come edera ingiallita sul tendone di quel circo equestre che siamo soliti definire informazione.
Quanti mostri, miti, demoni e santi, nascono dalla fantasia di pennivendoli imbolsiti e tele urlatori che creano opinione, nascono per poi scolorare come foglie secche che frusciano nel vento tiepido di una giornata di autunno.
La storia recente di Sergio Cofferati, il cinese, come amavano chiamarlo con simpatia i suoi tanti estimatori, è un fulgido esempio di quanto effimeri siano i messaggi attraverso i quali i media forgiano le nostre opinioni ed il nostro pensiero.
Il quotidiano Liberazione ha dedicato a Cofferati la propria prima pagina, accusandolo di avere ordinato alla polizia di bastonare un centinaio di studenti i quali, capeggiati dal deputato dei Verdi Paolo Cento e da un dirigente locale di Rifondazione Comunista, cercavano di entrare con la forza nel municipio di Bologna al grido di "Cofferati fascista."
Sergio Cofferati, proprio lui, il paladino dell'articolo 18, l'unico uomo che nell'ultimo decennio sia riuscito ad infiammare gli animi dei lavoratori, a riempire di folla piazze e palazzetti dello sport, a dare ancora a molti italiani l'illusione di potere lottare per i propri diritti, viene additato dai giovani di sinistra come fascista e dalla stampa come mandante delle cariche dei celerini, quasi si trattasse di un novello Scelba.
Dove alligna giunti a questo punto la realtà e quali mezzi abbiamo per interpretarla e farla propria?
Chi è in realtà Sergio Cofferati? Il cinese che si profondeva nelle crociate per i diritti dei lavoratori e solo un paio di anni fa si poteva definire senza tema di smentita l'uomo più popolare ed amato della sinistra, tanto da farne un papabile leader della coalizione, oppure un imborghesito reazionario, amico dei manganelli e nemico degli studenti universitari al punto da fare calare violentemente il randello sulle loro schiene?
Probabilmente né l'uno né l'altro, forse semplicemente un uomo in gamba, ricco di carisma ma povero di coerenza e pertanto incline a lasciarsi manovrare.
Una figura che la sinistra ha usato sfruttandone la crescente popolarità, quando ad inizio legislatura ancora fingeva di combattere il governo Berlusconi sui temi del lavoro e dell'occupazione e forse carezzava l'idea di proporre un uomo nuovo a guidare la coalizione per le prossime elezioni.
Una figura poi divenuta scomoda ed ingombrante allorquando il centrosinistra ha deciso di riesumare la salma di Romano Prodi, ormai da tempo mummificata a Strasburgo.
Quale soluzione migliore a quel punto che parcheggiare il cinese in quel di Bologna, attendendo che la diminuita esposizione mediatica ne intaccasse la popolarità.
Presiedere la gestione di una città, con tutte le sue problematiche e contraddizioni è certo più difficile e meno remunerativo in termini di popolarità che non guidare un sindacato che si fingeva impegnato in una battaglia epocale come quella sull'articolo 18.
Ho scritto fingeva poiché in realtà il sindacato capeggiato da Cofferati in quegli anni finse soltanto di porsi a baluardo dei diritti dei lavoratori, preservando il famoso articolo 18 dall'attacco peraltro velleitario ed improbabile del governo Berlusconi.
Mentre quegli stessi diritti venivano annientati in profondità attraverso la riforma Biagi, nei confronti della quale il sindacato si guardò bene dal manifestare la benché minima opposizione.
Se è vero che Cofferati in realtà fece ben poco per preservare i diritti di coloro che lo osannavano quando era leader della CGIL, altrettanto vero è che non mi pare stia operando a Bologna nella veste di squadrista e di picchiatore. Ma forse l'essere diventato demonio senza colpa è solo la conseguenza di essere stato santo senza merito, godiamoci questa salomonica riflessione, nell'attesa che i media forgino un nuovo mito, ho la netta sensazione che l'amatissima e Celentanissima RockPolitik ne abbia già messi in cantiere almeno un paio.
domenica 23 ottobre 2005
Incidenti di percorso
Marco Cedolin
Doveva trattarsi di una serata di gala per i candidati dell'Unione di centrosinistra alle elezioni primarie di domenica, ospiti in prima serata del programma Alice nel paese delle meraviglie, condotto su Rai due dall'inappuntabile e pacata Anna La Rosa.
Si trattava di un'occasione per confrontarsi, esponendo ciascuno la propria bozza di programma politico, in un'ottica costruttiva come si conviene fra alleati uniti e coesi.
Qualcosa invece non ha funzionato, anzi ad essere precisi a funzionare sono state davvero pochissime cose ed il telespettatore si è trovato ad osservare un penoso siparietto, condito da tensione, insulti e palpabili imbarazzi, quasi si trovasse su blob.
Romano Prodi e Fausto Bertinotti, i due candidati più accreditati al successo nelle votazioni di domenica, avevano in verità preventivamente defezionato il programma, lasciando il proscenio ai cinque candidati minori, in ordine sparso Pecoraro Scanio presidente dei Verdi, Antonio Di Pietro leader dell'Italia dei valori, Ivan Scalfarotto candidato indipendente, Clemente Mastella leader dell'Udeur e Simona Panzino rappresentante del movimento dei "senza volto".
Il fattaccio è accaduto durante un collegamento con il vice ministro Adolfo Urso che parlava da Montecitorio. La Panzino che gli aveva appena rubato la parola e stava interloquendo sul problema degli sfratti agli anziani si è improvvisamente alzata in piedi come tarantolata indicando in direzione del pubblico dove era in atto una sorta di collutazione fra un collaboratore della stessa Panzino ed alcuni uomini del personale di studio.
Nell'evidenza che il caos era prossimo a degenerare il contatto video veniva tempestivamente sospeso ed i telespettatori si ritrovavano dinanzi prima ad una tanto imprevista quanto non richiesta pausa pubblicitaria, poi ad alcuni minuti di filmati di repertorio.
Stemperata almeno apparentemente la tensione il collegamento riprendeva ma nello studio mancava la presenza di Clemente Mastella il quale aveva abbandonato la trasmissione, subordinando la propria permanenza alla richiesta che fosse cacciata dalla trasmissione la candidata Panzino.
La conduttrice Anna La Rosa, visibilmente tesa ed imbarazzata si profondeva in scuse sia nei confronti dei telespettatori che degli ospiti, ma il clima di tensione continuava a restare l'unico vero protagonista fino alla fine della trasmissione.
Le bozze di programma illustrate dai candidati si manifestavano per molti versi antitetiche l'una rispetto all'altra ed anche riguardo alla priorità da dare ai vari problemi del paese si denotava un'evidente distonia di vedute, quasi ci si trovasse di fronte non a membri di una stessa coalizione, bensì a diverse fazioni politicamente contrapposte fra loro.L'unico argomento riguardo al quale si riscontrava perfetta consonanza era l'appello, proferito da tutti i candidati in maniera quasi ossessiva, ad andare a votare numerosi, un appello dal quale traspariva chiaramente più la paura di una defezione di massa dei cittadini dalle urne, piuttosto che la convinzione nelle proprie parole.
Doveva trattarsi di una serata di gala per i candidati dell'Unione di centrosinistra alle elezioni primarie di domenica, ospiti in prima serata del programma Alice nel paese delle meraviglie, condotto su Rai due dall'inappuntabile e pacata Anna La Rosa.
Si trattava di un'occasione per confrontarsi, esponendo ciascuno la propria bozza di programma politico, in un'ottica costruttiva come si conviene fra alleati uniti e coesi.
Qualcosa invece non ha funzionato, anzi ad essere precisi a funzionare sono state davvero pochissime cose ed il telespettatore si è trovato ad osservare un penoso siparietto, condito da tensione, insulti e palpabili imbarazzi, quasi si trovasse su blob.
Romano Prodi e Fausto Bertinotti, i due candidati più accreditati al successo nelle votazioni di domenica, avevano in verità preventivamente defezionato il programma, lasciando il proscenio ai cinque candidati minori, in ordine sparso Pecoraro Scanio presidente dei Verdi, Antonio Di Pietro leader dell'Italia dei valori, Ivan Scalfarotto candidato indipendente, Clemente Mastella leader dell'Udeur e Simona Panzino rappresentante del movimento dei "senza volto".
Il fattaccio è accaduto durante un collegamento con il vice ministro Adolfo Urso che parlava da Montecitorio. La Panzino che gli aveva appena rubato la parola e stava interloquendo sul problema degli sfratti agli anziani si è improvvisamente alzata in piedi come tarantolata indicando in direzione del pubblico dove era in atto una sorta di collutazione fra un collaboratore della stessa Panzino ed alcuni uomini del personale di studio.
Nell'evidenza che il caos era prossimo a degenerare il contatto video veniva tempestivamente sospeso ed i telespettatori si ritrovavano dinanzi prima ad una tanto imprevista quanto non richiesta pausa pubblicitaria, poi ad alcuni minuti di filmati di repertorio.
Stemperata almeno apparentemente la tensione il collegamento riprendeva ma nello studio mancava la presenza di Clemente Mastella il quale aveva abbandonato la trasmissione, subordinando la propria permanenza alla richiesta che fosse cacciata dalla trasmissione la candidata Panzino.
La conduttrice Anna La Rosa, visibilmente tesa ed imbarazzata si profondeva in scuse sia nei confronti dei telespettatori che degli ospiti, ma il clima di tensione continuava a restare l'unico vero protagonista fino alla fine della trasmissione.
Le bozze di programma illustrate dai candidati si manifestavano per molti versi antitetiche l'una rispetto all'altra ed anche riguardo alla priorità da dare ai vari problemi del paese si denotava un'evidente distonia di vedute, quasi ci si trovasse di fronte non a membri di una stessa coalizione, bensì a diverse fazioni politicamente contrapposte fra loro.L'unico argomento riguardo al quale si riscontrava perfetta consonanza era l'appello, proferito da tutti i candidati in maniera quasi ossessiva, ad andare a votare numerosi, un appello dal quale traspariva chiaramente più la paura di una defezione di massa dei cittadini dalle urne, piuttosto che la convinzione nelle proprie parole.
sabato 22 ottobre 2005
Poco rock niente politik
Marco Cedolin
L’evento televisivo era stato preparato da tempo, curando con precisione certosina tutti i particolari che ne consentissero un facile successo sia in termini di ascolto (di share, come amano definirlo i tele acculturati doc) sia in termini di risonanza mediatica.
La scelta di Adriano Celentano, l’unico uomo in grado di scalare i dati Auditel con il solo ausilio dei propri silenzi, come conduttore del programma non avrebbe potuto essere più azzeccata.
Così come intrigante risultava il nome della trasmissione, quel “RockPolitik” che nell’immaginario collettivo prometteva di fondere i ritmi forsennati della musica con l’andamento lento tipico del mondo politico.
Ad aumentare l’aspettativa, già creata con notevole dispendio di energia dall’ampio spazio dedicato al futuro evento da giornali e TV, si aggiungeva l’annuncio del ritorno sul piccolo schermo di quel Michele Santoro che veste ormai da tempo l’abito dell’epurato numero uno della televisione pubblica.
Lo spettacolo condotto dal molleggiato è invece riuscito a disattendere qualsiasi tipo di aspettativa una persona si fosse creata nella propria mente.
Celentano ha portato avanti per un paio d’ore una sorta di commistione fra i tipici varietà musicali del sabato sera ed una fantomatica riconquista della libertà d’informazione, il tutto condito da una ridda esagerata di luoghi comuni, facile demagogia e retorica, non dimenticando di strizzare l’occhio alla chiesa cattolica.
L’ascoltatore, che veniva invitato da una scritta in sovrimpressione all’inizio del programma ad ascoltare lo stesso a tutto volume, si è reso conto ben presto suo malgrado che l’unica vera protagonista del palcoscenico rischiava di essere la noia.
La trasmissione si è trascinata sonnolenta fra canzonette, monologhi stucchevoli, statistiche riguardanti la libertà d’espressione ormai note da tempo spacciate come rivelazioni ed i consueti silenzi carichi di filosofica riflessione.
Celentano ha speso alcune parole criticando la presenza degli ecomostri che deturpano la bellezza del paesaggio italiano, ma non ha fatto menzione del disastro economico che deturpa in maniera ben peggiore la vita di tanti italiani.
Ha attaccato gli immobiliaristi che la trasmissione Report aveva già denunciato, oltretutto fornendo in merito ampie documentazioni, quasi una settimana fa.
All’acme del proprio sdegno nei confronti del sistema ci ha reso partecipi dell’incredibile rivelazione secondo la quale “tutti hanno paura delle parole ed oggi si possono dire solo cose che non danno fastidio a nessuno.”
L’entrata in scena di Michele Santoro, evento epico che in ossequio alla fantasia del molleggiato sarebbe valso a riportare l’Italia al primo posto nella classifica della libertà d’espressione (quasi Santoro anziché deputato al parlamento europeo fosse rimasto fino ad oggi rinchiuso in qualche carcere di massima sicurezza) non ha aggiunto assolutamente pepe né ritmo alla trasmissione.
L’indimenticato protagonista di Sciuscià si è prodotto anch’egli in un breve soliloquio ma non è riuscito ad esperire altro che poche parole intrise di buoni sentimenti e nulla più.
“Viva la fratellanza, viva l’eguaglianza, viva la cultura, viva la libertà.”
Impossibile ovviamente non condividere queste parole, ma forse il telespettatore aveva l’ambizione che qualcuno provasse a spiegargli per quale arcana ragione tali nobili parole continuano a restare un mero esercizio sillabico anziché tradursi in realtà.
Il sistema, dopo avere dato prova attraverso il controllo sistematico dei media, di riuscire a plasmare il mondo reale a proprio uso e consumo, sta diventando sempre più bravo anche nell’artificio di creare falsa contro informazione pilotata che dimostri la presenza di quella libertà di pensiero che si è invece ormai persa da tempo.L’ordalia d’indignazione ed esternazioni critiche che tutto il centro destra non ha mancato fin da subito d’indirizzare nei confronti di Celentano e della trasmissione sono solo irrinunciabili elementi di coreografia che alimentano l’illusione di libertà.
L’evento televisivo era stato preparato da tempo, curando con precisione certosina tutti i particolari che ne consentissero un facile successo sia in termini di ascolto (di share, come amano definirlo i tele acculturati doc) sia in termini di risonanza mediatica.
La scelta di Adriano Celentano, l’unico uomo in grado di scalare i dati Auditel con il solo ausilio dei propri silenzi, come conduttore del programma non avrebbe potuto essere più azzeccata.
Così come intrigante risultava il nome della trasmissione, quel “RockPolitik” che nell’immaginario collettivo prometteva di fondere i ritmi forsennati della musica con l’andamento lento tipico del mondo politico.
Ad aumentare l’aspettativa, già creata con notevole dispendio di energia dall’ampio spazio dedicato al futuro evento da giornali e TV, si aggiungeva l’annuncio del ritorno sul piccolo schermo di quel Michele Santoro che veste ormai da tempo l’abito dell’epurato numero uno della televisione pubblica.
Lo spettacolo condotto dal molleggiato è invece riuscito a disattendere qualsiasi tipo di aspettativa una persona si fosse creata nella propria mente.
Celentano ha portato avanti per un paio d’ore una sorta di commistione fra i tipici varietà musicali del sabato sera ed una fantomatica riconquista della libertà d’informazione, il tutto condito da una ridda esagerata di luoghi comuni, facile demagogia e retorica, non dimenticando di strizzare l’occhio alla chiesa cattolica.
L’ascoltatore, che veniva invitato da una scritta in sovrimpressione all’inizio del programma ad ascoltare lo stesso a tutto volume, si è reso conto ben presto suo malgrado che l’unica vera protagonista del palcoscenico rischiava di essere la noia.
La trasmissione si è trascinata sonnolenta fra canzonette, monologhi stucchevoli, statistiche riguardanti la libertà d’espressione ormai note da tempo spacciate come rivelazioni ed i consueti silenzi carichi di filosofica riflessione.
Celentano ha speso alcune parole criticando la presenza degli ecomostri che deturpano la bellezza del paesaggio italiano, ma non ha fatto menzione del disastro economico che deturpa in maniera ben peggiore la vita di tanti italiani.
Ha attaccato gli immobiliaristi che la trasmissione Report aveva già denunciato, oltretutto fornendo in merito ampie documentazioni, quasi una settimana fa.
All’acme del proprio sdegno nei confronti del sistema ci ha reso partecipi dell’incredibile rivelazione secondo la quale “tutti hanno paura delle parole ed oggi si possono dire solo cose che non danno fastidio a nessuno.”
L’entrata in scena di Michele Santoro, evento epico che in ossequio alla fantasia del molleggiato sarebbe valso a riportare l’Italia al primo posto nella classifica della libertà d’espressione (quasi Santoro anziché deputato al parlamento europeo fosse rimasto fino ad oggi rinchiuso in qualche carcere di massima sicurezza) non ha aggiunto assolutamente pepe né ritmo alla trasmissione.
L’indimenticato protagonista di Sciuscià si è prodotto anch’egli in un breve soliloquio ma non è riuscito ad esperire altro che poche parole intrise di buoni sentimenti e nulla più.
“Viva la fratellanza, viva l’eguaglianza, viva la cultura, viva la libertà.”
Impossibile ovviamente non condividere queste parole, ma forse il telespettatore aveva l’ambizione che qualcuno provasse a spiegargli per quale arcana ragione tali nobili parole continuano a restare un mero esercizio sillabico anziché tradursi in realtà.
Il sistema, dopo avere dato prova attraverso il controllo sistematico dei media, di riuscire a plasmare il mondo reale a proprio uso e consumo, sta diventando sempre più bravo anche nell’artificio di creare falsa contro informazione pilotata che dimostri la presenza di quella libertà di pensiero che si è invece ormai persa da tempo.L’ordalia d’indignazione ed esternazioni critiche che tutto il centro destra non ha mancato fin da subito d’indirizzare nei confronti di Celentano e della trasmissione sono solo irrinunciabili elementi di coreografia che alimentano l’illusione di libertà.
martedì 18 gennaio 2005
Roma ladrona o ladroni a Roma?
Marco Cedolin
Ormai ciascuno di noi è perfettamente conscio di come le idee, i programmi, la volontà di spendersi in qualcosa di costruttivo, siano concetti completamente sconosciuti nell'intimità dei carrozzoni di quel circo equestre che è la politica italiana.
Lo si può intuire senza alcuna fatica già solo osservando lo sgomitare scomposto dei mestieranti che calcano palcoscenici etichettati ora di destra, ora di sinistra, solo per tentare di gettare un pò di fumo negli occhi di quegli elettori che il ministro Sirchia, con falso paternalismo, proprio dal fumo tenta di preservare.
Lo si evince con chiarezza dal rapporto simbiotico che gli uomini politici hanno instaurato con la propria poltrona-carapace, dalla quale si guardano bene dall' allontanarsi, fosse anche per un secondo.
Lo si percepisce nell'assoluta inanità di pensiero che traspare dalle infinite diatribe, urlate con falsa enfasi e toni fintamente scomposti, discussioni basate sul nulla, che si trascinano dalle aule del parlamento, fino agli schermi TV, con lo scopo precipuo di approdare a quel nulla che per il mestierante della politica significa mantenimento della propria condizione di uomo ricco e privilegiato.
Nello scorrere l'elenco dei nuovi assunti presso il Parlamento Europeo, con la qualifica di assistenti accreditati degli onorevoli Matteo Salvini e Francesco Speroni, ci si imbatte non senza sorpresa nei nomi di Franco Bossi e Riccardo Bossi, rispettivamente fratello e figlio primogenito del leader del Carroccio.
Naturalmente vi starete domandando perchè io mai abbia parlato di sorpresa, dal momento che il nepotismo e la regola del do ut des sono in Italia le colonne basilari sopra le quali è costruito il mondo del lavoro e non esiste alcuna ragione logica per la quale i politici (anche coloro che hanno costruito la propria fortuna attraverso la maschera di uomini onesti ed integerrimi) dovrebbero rappresentare un'eccezione.
La sorpresa però c'è, ve lo garantisco, ed alligna in due particolari che si fatica oltremisura a considerare di secondaria importanza.
In primo luogo lo stipendio che percepiranno questi due membri della famiglia del Senatur, pari a 12.750 euro al mese (oltre 24 milioni delle vecchie lire) ai quali si sommeranno vari ed eventuali bonus, una retribuzione che certo pare poco allineata non solo a quelle degli operai di Melfi o degli autoferrotranvieri, ma anche a quelle di gran parte degli italiani, siano essi lavoratori dipendenti o autonomi.
Una retribuzione talmente elevata da lasciare presupporre i soggetti in questione siano in possesso di capacità decisamente superiori alla media, onde meritare guadagni così principeschi.
E qui arriviamo al secondo particolare, in quanto Franco Bossi, il primo assistente "accreditato" si è fino ad oggi prodigato nel mandare avanti un negozio di autoricambi a Fagnano Olona e per quanto fervidi di fantasia si possa essere resta davvero difficile riuscire a comprendere attraverso quale arcana alchimia tale esperienza nel campo dei ricambi, dei gadget per auto e magari delle autoradio, possa accreditare lo stesso ad occuparsi delle problematiche politiche del sistema europeo.
Di Riccardo Bossi, aitante ragazzo di 23 anni si conosce solo il fatto che è studente fuori corso all'università ed ama le auto di grossa cilindrata, un po’ poco, credo, per accreditarlo presso il Parlamento Europeo, con la retribuzione di cui parlavamo sopra, che se certo gli sarà molto utile nell'acquisto delle auto veloci, di contralto finisce per svilire gli sforzi di tutte quei giovani che studiano e lavorano duro tutto il giorno, senza che riesca loro di monetizzare adeguatamente le proprie capacità.
In conclusione la morale, se ci può essere una morale andando a spulciare fra le bassezze del genere umano, resta sempre la medesima.
E' molto comodo ma anche estremamente misero, ergersi a personaggio e conquistare il favore della gente urlando “Roma Ladrona!!” quando ci si ritrova fuori dal sistema, per poi sguazzare compiaciuti in quello stesso sistema non appena si ha la possibilità di farne parte e godere dei privilegi che ne conseguono.
Qui finisce la sorpresa, ci siamo ormai accorti da tempo che la coerenza non fa più parte dei nostri giorni. Ex terroristi che scrivono best sellers con l'aiuto delle case editrici di un regime che volevano abbattere, spiriti liberi che non appena entrati nel "giro che conta" trasmutano in spiriti ricchi e relegano la libertà nel chip di una carta di credito....come cambiare maschere a seconda dell'occasione, perchè al di sotto delle maschere esiste sempre solo e solamente il nulla.
Ormai ciascuno di noi è perfettamente conscio di come le idee, i programmi, la volontà di spendersi in qualcosa di costruttivo, siano concetti completamente sconosciuti nell'intimità dei carrozzoni di quel circo equestre che è la politica italiana.
Lo si può intuire senza alcuna fatica già solo osservando lo sgomitare scomposto dei mestieranti che calcano palcoscenici etichettati ora di destra, ora di sinistra, solo per tentare di gettare un pò di fumo negli occhi di quegli elettori che il ministro Sirchia, con falso paternalismo, proprio dal fumo tenta di preservare.
Lo si evince con chiarezza dal rapporto simbiotico che gli uomini politici hanno instaurato con la propria poltrona-carapace, dalla quale si guardano bene dall' allontanarsi, fosse anche per un secondo.
Lo si percepisce nell'assoluta inanità di pensiero che traspare dalle infinite diatribe, urlate con falsa enfasi e toni fintamente scomposti, discussioni basate sul nulla, che si trascinano dalle aule del parlamento, fino agli schermi TV, con lo scopo precipuo di approdare a quel nulla che per il mestierante della politica significa mantenimento della propria condizione di uomo ricco e privilegiato.
Nello scorrere l'elenco dei nuovi assunti presso il Parlamento Europeo, con la qualifica di assistenti accreditati degli onorevoli Matteo Salvini e Francesco Speroni, ci si imbatte non senza sorpresa nei nomi di Franco Bossi e Riccardo Bossi, rispettivamente fratello e figlio primogenito del leader del Carroccio.
Naturalmente vi starete domandando perchè io mai abbia parlato di sorpresa, dal momento che il nepotismo e la regola del do ut des sono in Italia le colonne basilari sopra le quali è costruito il mondo del lavoro e non esiste alcuna ragione logica per la quale i politici (anche coloro che hanno costruito la propria fortuna attraverso la maschera di uomini onesti ed integerrimi) dovrebbero rappresentare un'eccezione.
La sorpresa però c'è, ve lo garantisco, ed alligna in due particolari che si fatica oltremisura a considerare di secondaria importanza.
In primo luogo lo stipendio che percepiranno questi due membri della famiglia del Senatur, pari a 12.750 euro al mese (oltre 24 milioni delle vecchie lire) ai quali si sommeranno vari ed eventuali bonus, una retribuzione che certo pare poco allineata non solo a quelle degli operai di Melfi o degli autoferrotranvieri, ma anche a quelle di gran parte degli italiani, siano essi lavoratori dipendenti o autonomi.
Una retribuzione talmente elevata da lasciare presupporre i soggetti in questione siano in possesso di capacità decisamente superiori alla media, onde meritare guadagni così principeschi.
E qui arriviamo al secondo particolare, in quanto Franco Bossi, il primo assistente "accreditato" si è fino ad oggi prodigato nel mandare avanti un negozio di autoricambi a Fagnano Olona e per quanto fervidi di fantasia si possa essere resta davvero difficile riuscire a comprendere attraverso quale arcana alchimia tale esperienza nel campo dei ricambi, dei gadget per auto e magari delle autoradio, possa accreditare lo stesso ad occuparsi delle problematiche politiche del sistema europeo.
Di Riccardo Bossi, aitante ragazzo di 23 anni si conosce solo il fatto che è studente fuori corso all'università ed ama le auto di grossa cilindrata, un po’ poco, credo, per accreditarlo presso il Parlamento Europeo, con la retribuzione di cui parlavamo sopra, che se certo gli sarà molto utile nell'acquisto delle auto veloci, di contralto finisce per svilire gli sforzi di tutte quei giovani che studiano e lavorano duro tutto il giorno, senza che riesca loro di monetizzare adeguatamente le proprie capacità.
In conclusione la morale, se ci può essere una morale andando a spulciare fra le bassezze del genere umano, resta sempre la medesima.
E' molto comodo ma anche estremamente misero, ergersi a personaggio e conquistare il favore della gente urlando “Roma Ladrona!!” quando ci si ritrova fuori dal sistema, per poi sguazzare compiaciuti in quello stesso sistema non appena si ha la possibilità di farne parte e godere dei privilegi che ne conseguono.
Qui finisce la sorpresa, ci siamo ormai accorti da tempo che la coerenza non fa più parte dei nostri giorni. Ex terroristi che scrivono best sellers con l'aiuto delle case editrici di un regime che volevano abbattere, spiriti liberi che non appena entrati nel "giro che conta" trasmutano in spiriti ricchi e relegano la libertà nel chip di una carta di credito....come cambiare maschere a seconda dell'occasione, perchè al di sotto delle maschere esiste sempre solo e solamente il nulla.
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