lunedì 3 luglio 2006

Questa sinistra tanto americana

Marco Cedolin

Il decreto Bersani, contenuto nella manovra bis che il governo si appresta a varare è il primo atto di una certa rilevanza messo in essere da questo esecutivo e si rivela quanto mai indicativo della linea di tendenza che il governo Prodi intende perseguire nell’ambito di materia economica.
Liberalizzare al fine di favorire la concorrenza è stata fin dall’inizio degli anni 90 la parola d’ordine attraverso la quale le forze politiche di ogni colore hanno tentato di scimmiottare il modello americano, ottenendo in verità pessimi risultati e peggiorando talvolta la situazione preesistente.
Il consumatore che avrebbe dovuto essere il soggetto deputato a fruire dei benefici di liberalizzazioni e concorrenza si trova infatti oggi in una situazione molto più complicata e sfavorevole di quanto non lo fosse 15 anni fa.

Anche in questo caso Bersani strizza l’occhio ai consumatori, attaccando gli interessi corporativi nel nome del libero mercato e della libera concorrenza. Leggendo le cose in questo modo non ci sarebbe nulla de eccepire e sembrerebbe che il decreto sia in grado di coniugare il pensiero di sinistra con la moderna realtà della società capitalista occidentale.
Se entriamo però nel merito del decreto stesso scopriamo che la realtà si rivela molto differente rispetto ai nobili propositi propagandati.

La liberalizzazione delle licenze dei taxi ed il permesso dato ad un unico soggetto di possedere e gestire più taxi è senza dubbio il punto che colpisce più di ogni altro e sta già iniziando a suscitare polemiche.
I tassisti innanzitutto, pur risultando nella nostra normativa come imprenditori o liberi professionisti, non somigliano neppure da lontano ad una classe privilegiata detentrice magari di grandi capitali. Chi possiede un taxi in Italia ha pagato la propria licenza a caro prezzo e si spende in un lavoro duro all’interno di città caotiche ed inquinate, con il solo risultato di riuscire a sbarcare il lunario alla stessa stregua della maggior parte dei lavoratori dipendenti.
Non occorre essere dotati di una mente eccelsa per comprendere che la liberalizzazione metterà in ginocchio molti tassisti, i quali mentre stanno ancora pagando il debito relativo all’acquisto della licenza si ritroveranno con il valore della stessa diventato uguale a quello della carta straccia e la redditività del proprio taxi profondamente diminuita grazie all’enorme aumento dei mezzi concorrenti. Così come appare lapalissiano che il permesso per un unico soggetto di gestire più taxi comporterà automaticamente la concentrazione del mercato nelle mani di pochi soggetti con disponibilità economiche elevate, alla stessa stregua di quanto è già avvenuto in passato in molti settori del commercio.
La bella favola secondo la quale tramite la concorrenza si abbasseranno le tariffe sarà come sempre destinata a rimanere una chimera, poiché nessun soggetto imprenditoriale sarebbe così folle da operare senza ottenere un minimo margine di guadagno e l’ampliamento della quantità di taxi circolanti avrà già ridotto al minimo il margine stesso.
Nasceranno insomma le grandi compagnie di taxi che nel medio e lungo periodo costituiranno un cartello e porteranno gradualmente verso l’alto le tariffe, così come è già avvenuto per le banche e le assicurazioni.

I farmacisti come categoria non sono certo assimilabili a chi guida un taxi, essendo innanzitutto la redditività delle loro imprese di gran lunga più elevata, ma anche in questo ambito dietro al mistificatorio velo di buone intenzioni si può intravedere un disegno di segno ben diverso.
La liberalizzazione introduce la possibilità per un unico soggetto di essere titolare di più farmacie, associarsi, gestire attività all’ingrosso e al dettaglio, senza vincoli territoriali all’attività.
Anche in questo caso senza l’ausilio di molta fantasia è facile apprezzare l’apertura del settore alle economie di scala e ai grandi capitali, laddove oltretutto soggetti economicamente preminenti potranno costruire veri e propri “imperi” grazie alla commistione fra catene di punti vendita e ingrossi farmaceutici. Per quanto concerne gli ingrossi farmaceutici scompare inoltre l’obbligo di detenere almeno il 90% delle specialità in commercio (per i medicinali non ammessi al rimborso da parte del SSN) con ricadute certo non positive per il consumatore finale che in questo caso è spesso un soggetto debole in quanto afflitto da problemi di salute.
La possibilità data ai supermercati di vendere i farmaci da banco, se da un lato favorirà i consumatori in termini di comodità e possibilità (tutta da verificare) di ottenere sconti sugli stessi, dall’altro li priverà dell’assistenza di una figura competente in grado di consigliarli al meglio (stiamo comunque sempre parlando di farmaci) e soprattutto sposterà un mare di miliardi nelle tasche della grande distribuzione. Le varie COOP, Auchan, Carrefour, Panorama e tutta la lobby degli ipermercati sono in realtà gli unici soggetti che gongolano in virtù della novità.

La soppressione della distanza minima tra un esercizio commerciale e l’altro e la liberalizzazione delle merci che possono essere tenute in un negozio, così come quella riguardante la produzione di pane fanno da corollario al tutto, contribuendo a smantellare quelle poche nicchie in ambito commerciale che ancora erano riuscite a sottrarsi all’oligopolio della grande distribuzione.

Le associazioni dei consumatori si dicono soddisfatte dai provvedimenti, forse ostentando troppa fretta nel prendere una posizione. I consumatori, come gli automobilisti sono in realtà una categoria omnicomprensiva della quale fanno parte anche i tassisti, i commercianti, i farmacisti e qualunque categoria trarrà dal decreto Bersani grossi svantaggi, senza contare che i benefici vanno apprezzati quando si traducono in realtà e non sono soltanto ventilati ipoteticamente sulla carta. Le sorprese in questo senso sono state talmente tante da avercene fatto perdere il conto.

Togliere reddito alle categorie medie per introitare tale reddito nelle casse di chi detiene il grande capitale non mi sembra in tutta sincerità un pensiero di sinistra, al contrario risulta in sintonia con il modello americano, proprio quel modello che il centrosinistra nostrano insegue pedissequamente inneggiando ogni giorno a miti ormai desueti quali crescita, sviluppo, concorrenza, modernizzazione, competitività. Un risultato sicuramente il nuovo governo targato Romano Prodi lo ha già ottenuto, rubando al centrodestra tutte le idee che in 5 anni ha avuto timore di tradurre in realtà, lo ha messo nella condizione di non avere i mezzi per prodursi in alcun tipo di opposizione.

lunedì 19 giugno 2006

La serietà al governo

Marco Cedolin

Gli slogan elettorali, studiati attentamente a tavolino dagli esperti di comunicazione, qualche volta colgono nel segno riuscendo ad interpretare ciò che la gente desidera o pensa di desiderare o più semplicemente è stata indotta a desiderare.
In effetti dopo 5 anni di governo Berlusconi, vissuti all’insegna della rappresentazione clownesca, della boutade, dell’istrionismo autoreferenziale, della finanza creativa, del milione di posti di lavoro che neppure gli appassionati di ufo hanno mai visto, dei rilevamenti ISTAT simili a specchi deformanti, di serietà in ambito governativo se ne percepiva davvero un gran bisogno. Il grande dubbio che dopo appena un mese dall’insediamento del nuovo esecutivo targato Romano Prodi, attanaglia gran parte dei cittadini che in quello slogan si sono riconosciuti è la sensazione che il nuovo che avanza abbia esaurito ogni stilla di serietà nel dipingere i manifesti elettorali e si proponga in realtà nella dimessa veste di una minestra riscaldata i cui ingredienti oltretutto fanno a pugni gli uni con gli altri.

Durante oltre un anno di campagna elettorale (prima per le elezioni amministrative, poi per le politiche) tutto il centrosinistra ha basato il proprio programma su tematiche quanto mai serie, quali la famiglia, il lavoro, la politica estera. Il dilagare del precariato e l’assurto quanto mai realistico in virtù del quale le famiglie italiane non riuscivano più ad arrivare alla fine del mese, sono stati insieme alla necessità di ritirare i soldati dall’Iraq i veri punti cardine intorno ai quali la disomogenea compagine che faceva capo a Romano Prodi ha costruito il proprio consenso e la propria sia pur risicata vittoria.
Se è vero che il buongiorno si vede dal mattino, non ci è ancora stato dato modo di scorgere neppure i prodromi di un pur timido albore.Queste prime settimane all’insegna del nuovo governo sono state una continua sequela di delusioni, contraddizioni e nonsense al limite dell’autolesionismo. Prima la battaglia delle poltrone, condotta da ministri ed aspiranti tali in stato di trance da combattimento e risolta solo attraverso la bonomia del professore che ha deciso di moltiplicare all’uopo le cariche ministeriali ed i relativi stipendi.
Poi il ritiro dei nostri soldati dalla terra d’Iraq che per qualche arcana ragione non poteva avvenire in maniera semplice e sbrigativa seguendo l’esempio di Zapatero. Prodi ha deciso di concertare il ritiro con tutti coloro che non avevano voce in capitolo per entrare nel merito di una questione unicamente italiana, con il governo americano, con quello inglese e perfino con quello iracheno, sulla cui esistenza al di fuori dell’immaginario collettivo è lecito nutrire forti dubbi.

Risultato di tutta questa complessa operazione volta a non scontentare nessuno è che le truppe italiane verranno ritirate in tempo per i botti di Capodanno, entro la stessa data in merito alla quale Berlusconi aveva concertato la cosa un anno fa con "l’amico" Bush.
Poi la scoperta (si potrà mai scoprire qualcosa di conclamato da tempo immemorabile?) del disastroso stato in cui versano i conti pubblici italiani.Il ministro delle Finanze Padoa Schioppa, dopo avere definito la situazione molto più grave del previsto ha prima ventilato e poi smentito almeno una decina di volte l’ipotesi di una manovra correttiva, fino ad arrivare a definirla indispensabile e quantificarla in circa 10 miliardi di euro. Secondo le parole del Ministro tale corposa manovra, legata indissolubilmente ad un preciso piano di rientro del deficit in merito al quale egli si è impegnato in chiave europea, non svuoterà ulteriormente le tasche degli italiani, ma pensare che lo Stato possa recuperare una cifra di queste dimensioni unicamente attraverso tagli degli sprechi e lotta all’evasione fiscale sarebbe esercizio di pura follia.
Ha cantato nel coro anche il Ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro che ha lamentato la necessità di almeno 4 o 5 miliardi di euro indispensabili per tenere aperti per i prossimi 6 mesi i cantieri delle grandi e piccole opere ed inaugurare quelli ritenuti (a torto o a ragione) indispensabili. Anche in questo caso l’unica prospettiva è il salasso delle tasche degli italiani, probabilmente attraverso addizionali che colpiranno gli automobilisti.

Come se non bastasse, per evitare di scontentare Montezemolo, Prodi dovrà procedere in tempi brevi al taglio del cuneo fiscale, partito come misura volta a favorire le imprese e i lavoratori ma ormai trasmutato come manovra volta unicamente a sovvenzionare il mondo imprenditoriale alla ricerca della competitività perduta. Anche in questo caso si parla di una cifra nell’ordine dei 10 miliardi di euro che sicuramente non potranno materializzarsi dal nulla.Come corollario di questi primi incerti passi compiuti dal governo, una moltitudine di esternazioni compiute da ministri e uomini politici, disarmoniche e spesso in contraddizione l’uno con l’altro, a confermare quanto sia difficile fare coesistere in uno stesso esecutivo forze ideologicamente e tradizionalmente così distanti fra loro da potere rappresentare l’intero arco costituzionale di un qualunque paese europeo.

Ma in tutto questo balletto di cifre volto a rinsaldare i conti pubblici, a rassicurare l’Europa, a mantenere in essere i progetti delle grandi opere, a sovvenzionare la consorteria di confindustria, che fine hanno fatto le famiglie che non riuscivano più ad arrivare alla fine del mese?Prima di tutte queste macro realtà dai nomi altisonanti ogni cittadino non è forse costretto a fare i conti con il proprio bilancio, dal momento che se non paga l’affitto lo cacciano in mezzo ad una strada e se non paga le bollette resta al buio senza nemmeno un fornello per preparare il desco? E’ davvero realistico immaginare che la famiglia media italiana già oggi in forte sofferenza possa immolare ulteriori risorse sull’altare del debito pubblico e della competitività industriale, senza scendere sotto quella soglia di povertà alla quale è ormai davvero molto vicina?L’unica serietà purtroppo non alligna nel governo ma negli animi delle molte, troppe persone che continuano a stare sempre peggio e si ritrovano in attesa di ulteriori ennesime stangate che le porteranno sempre più in basso. E l’espressione del viso rischia di farsi ancora più seria di fronte alla consapevolezza che non esistono alternative credibili a questo stato di cose, quando si volge lo sguardo di lato a scorgere Silvio Berlusconi diventa pura utopia anche l’ultimo anelito di speranza.

martedì 6 giugno 2006

A Nassirija si continua a morire entro i tempi tecnici

Marco Cedolin

Mentre il neonato governo italiano capitanato da Romano Prodi stava concludendo il proprio conclave nella serenità dell’Umbria, alla ricerca dell’unità perduta, o se preferite mai trovata, in Iraq a un centinaio di chilometri da Nassirija il caporalmaggiore Alessandro Pibiri perdeva la vita nell’esplosione del mezzo blindato sul quale viaggiava insieme a quattro commilitoni che sono rimasti feriti nell’incidente.I soldati italiani stavano scortando un convoglio logistico britannico quando un ordigno telecomandato ha fatto saltare in aria il loro automezzo. Salgono così a 38 i “caduti di guerra” vittime di una missione di pace che se fin dall’inizio ha avuto ben poche ragioni di esistere, oggi non ne possiede veramente più nessuna.Ogni giorno che passa si palesa maggiormente l’assoluta mancanza di motivazioni che sostengano la necessità di mantenere in terra irachena un contingente militare ormai impaludato nelle sabbie mobili di un’occupazione armata priva di senso e di prospettive.

Romano Prodi, esempio inarrivabile di mediazione e diplomazia, sembra in verità l’unico italiano a non essersi ancora accorto ...... (perfino Cossiga ne ha ormai preso coscienza) dell’assoluta necessità di ritirare immediatamente le truppe da un teatro di guerra nel quale si è intesa esportare la democrazia, creando invece i presupposti per una guerra civile senza quartiere alla quale fanno da corollario i massacri e le carneficine messe in atto con sottile sadismo dai soldati occupanti.Quello iracheno è ormai un tunnel senza uscita, vera cartina di tornasole di una malaugurata operazione militare che sta trasmutando in un fallimento totale.Il vero problema che il governo del professore si trova ad affrontare riguarda quei “tempi tecnici” che facevano bella mostra di sé all’interno del programma dell’Unione ed erano deputati a fare convergere tutte le diverse posizioni su un progetto di ritiro del contingente italiano differito nel tempo in maniera così elastica da non scontentare nessuno.

Gli elettori appartenenti alla sinistra più radicale potevano immaginare che i “tempi tecnici” fossero quei pochi giorni che erano stati necessari a Zapatero per richiamare i soldati in terra di Spagna. Gli elettori ulivisti immaginavano “tempi tecnici” un poco più allargati, magari di quei mesi necessari a concordare la cosa in funzione delle esigenze degli alleati inglesi e statunitensi. Gli elettori democristiani e neocon della Rosa nel pugno interpretavano i “tempi tecnici” come attesa del momento nel quale (forse fra un paio d’anni) tutte le truppe d’occupazione avrebbero abbandonato il suolo iracheno.Ma adesso che i “tempi tecnici” tanto utili per raggranellare voti all’interno di un elettorato eterogeneo hanno mietuto la loro prima vittima, nella persona di Alessandro Pibiri, anche Romano Prodi si vedrà costretto ad uscire da quell’inanità che finora è sembrata essere l’unico elemento di condivisione all’interno di questo governo.

La speranza è che il professore fra le tante mediazioni scelga quella giusta, poiché la già ventilata ipotesi di un ritiro della missione Antica Babilonia con la prospettiva di sostituirla con una nuova missione “civile” supportata da 600 soldati in armi significherebbe solo sprofondare ancora un poco di più nelle sabbie mobili della “nuova babilonia” che abbiamo contribuito a creare in terra d’Iraq e questa volta senza lasciarci neppure una via d’uscita.

martedì 23 maggio 2006

Il sistema TAV è l'unico vero tunnel

Marco Cedolin

L'inverno è alle nostre spalle, così come sono entrate a far parte del novero dei ricordi le notti passate all'addiaccio nella libera Repubblica di Venaus, le cariche della polizia e la commovente mobilitazione popolare che ha di fatto sancito come sia impossibile procedere alla costruzione di un'infrastruttura con il solo ausilio dei mezzi blindati e dei manganelli.
Abbiamo attraversato prima la "tregua olimpica" poi quella elettorale, per giungere infine in quel limbo dove si attende che il nuovo governo inizi a farsi carico dei reali problemi del paese.
Quello dell'Alta Velocità ferroviaria è uno dei grandi problemi da risolvere, così come quelli legati a molti altri temi scottanti quali il precariato e la sperequazione sociale. Ma contrariamente a quanto comunemente si crede i termini del problema riguardano la creazione di una truffa quale quella del "Sistema TAV" e non le proteste degli abitanti della Valle di Susa che semmai hanno avuto il merito di creare uno spiraglio, tramite la loro lotta, nel muro di gomma che da oltre 15 anni avvolge in maniera omertosa tutte le vicende legate all'alta velocità italiana.
Il sistema TAV è un vero e proprio museo degli orrori, costruito nel tempo con la connivenza di tutte le forze politiche, in grado di far scolorire al suo confronto tutti i più grandi scandali della nostra storia, tangentopoli compresa.

Nel 2009 (fra soli 3 anni) i contribuenti italiani inizieranno a pagare il conto di circa 1000 km. d'infrastrutture ferroviarie per i treni ad Alta velocità/capacità e si tratterà di un conto nell'ordine degli 80 miliardi di euro. Un conto che peserà per circa 2,3 miliardi di euro a finanziaria, portando le nostre disastrate finanze ben oltre il rapporto deficit/pil impostoci dall'Unione Europea.
Questi 1000 km. d'infrastrutture ferroviarie (in larga parte già oggi completati o in fase di completamento) serviranno per trasportare merci e passeggeri che oggi non esistono per mezzo di treni che probabilmente non esisteranno mai e saranno responsabili d’impatti ambientali devastanti in alcune zone (il Mugello su tutte) fra le più belle del nostro paese.
Questi 1000 km. di linea ferroviaria il cui costo medio/km risulterà il più caro d’Europa dovrebbero secondo le parole dei progettisti essere sfruttate sia da velocissimi treni passeggeri ad alta velocità che da pesantissimi treni merci ad alta capacità, ma nessun paese al mondo adotta un simile sistema “misto” che richiederebbe costi e tempi di manutenzione notevolissimi.
Questi 1000 km. d’infrastruttura non rispondono a nessuna esigenza reale del nostro paese (le cui ferrovie tradizionali sono ormai al collasso per mancanza d’investimenti) e non esiste alcuna possibilità concreta che l’investimento si manifesti in futuro remunerativo.
Questi 1000 km. sono il vero dramma con il quale il nuovo governo dovrà giocoforza fare i conti, trovandosi di fronte ad un’opera materialmente esistente, costosissima e priva di una destinazione d’uso che risponda alle più elementari logiche trasportistiche ed economiche.

Nonostante l’orrore sia già presente davanti ai nostri occhi e si prepari a risucchiare quei pochi spiccioli che ancora allignano nelle nostre tasche, tutta la politica continua a dissertare del “problema TAV” riconducendolo alla risolutezza con la quale gli abitanti della Val Susa hanno deciso d’impedire che si faccia scempio anche del loro territorio, nel tentativo di raddoppiare la dimensione dell’orrore, attraverso nuovi centinaia di km. d’infrastrutture costosissime, inutili e devastanti per l’ambiente e coloro che lo abitano.
Per affrontare il “problema TAV” non servono Osservatori e tavoli di confronto, non servono compensazioni e tentativi d’inciucio, non serve aggrapparsi al mito dell’Europa, (che nel 2009 probabilmente ci caccerà a calci) a fantomatiche creazioni di fantasia quali il Corridoio5, a roboanti paroloni quali “infrastruttura strategica” e “necessità di sviluppo”.
Per affrontare il “problema TAV” occorre guardarlo in faccia e prendere coscienza del fatto che si tratta di un mostro esistente che già avvelena il nostro territorio e fra soli 3 anni ci porterà a ripercorrere la triste esperienza dell’Argentina.

Il neonato governo Prodi che sta diventando operativo in questi giorni si trova dinanzi ad un bivio importante, nonostante il passato del nuovo Presidente del Consiglio in tema di grandi opere non sia proprio adamantino. Dovrà decidere se continuare pedissequamente a percorrere la strada dell’asservimento della politica agli interessi dei grandi poteri economico/finanziari, rimettendo il futuro di tutti noi fra le mani del farsesco “Osservatorio Virano” perpetuando il “Sistema TAV” fino a quando tutta l’architettura non esploderà creando uno scandalo senza precedenti, oppure abbandonare fin da subito ogni velleità legata a nuove tratte dell’alta velocità ferroviaria, istituendo immediatamente una Commissione d’inchiesta su quelle già esistenti, tentando almeno di limitare i danni e recuperare un minimo di quella credibilità che ormai da troppo tempo al mondo politico più non appartiene.

mercoledì 10 maggio 2006

Abbraccio nucleare

Marco Cedolin

Gorge W. Bush ha recentemente manifestato la propria volontà d’investire nel nucleare, considerando quella atomica una fonte energetica sostanzialmente sicura e pulita nella quale occorre “credere” e sulla stessa linea di pensiero sembra essere schierato anche il Presidente russo Vladimir Putin.
Quello dell’energia sta diventando sempre più uno dei temi focali intorno al quale si concentrano le attenzioni di tutti coloro (esperti e non) che analizzano le prospettive potenziali del nostro Paese in termini di sviluppo, crescita economica e competitività industriale. E’ opinione diffusa di una parte del mondo politico e scientifico che la mancata ripresa economica italiana sia da imputarsi al profondo gap energetico che ci separa dal resto dei paesi “sviluppati” e che questo gap sia in larga parte determinato dalla scelta operata nel 1987 dal popolo italiano di rinunciare allo sfruttamento dell’energia nucleare. Al tempo stesso a Saluggia, un piccolo paese di circa 4000 anime, sprofondato nelle prime propaggini della pianura padana fra Torino e Vercelli, la popolazione ed un gran numero di esperti ed associazioni ambientaliste, protestano contro la decisione di trasformare il comune in una sorta di discarica a tempo indeterminato per le scorie radioattive italiane, risalenti in larga parte al breve periodo di funzionamento delle centrali nucleari nostrane, e nelle falde acquifere della zona sono stati riscontrati segnali di radioattività.

Le scorie radioattive rappresentano un argomento talmente scottante per tutti i paesi industrializzati che producono (o come l’Italia hanno prodotto) energia tramite l’uso del nucleare, da far si che ogni notizia riguardo la loro presenza e le complesse metodiche concernenti il loro smaltimento, venga puntualmente epurata dal palinsesto dei media e relegata nel novero di quelle informazioni che devono essere sottaciute, affogate nel silenzio, soffocate nell’omertà mediatica. Le scorie nucleari sono il vero tallone d’Achille di una fonte di energia come quella atomica che spesso viene presentata all’opinione pubblica come sostanzialmente “pulita” ed economicamente molto conveniente. La pericolosità delle scorie e gli esorbitanti costi inerenti al loro stoccaggio (di smaltimento in realtà si può parlare solo impropriamente) costituiscono la prova prima di come fra le fonti energetiche il nucleare sia, contrariamente a quanto espresso dalla propaganda, di gran lunga la più devastante. Tanto dal punto di vista dell’inquinamento ambientale e dei rischi per la salute, quanto da quello della resa economica che risulta scarsissima qualora si quantifichino (e finora si è evitato di farlo) i costi derivanti dall’intera vita delle centrali fino alla loro dismissione e dalla messa in sicurezza (o presunta tale) dell’enorme quantità di rifiuti radioattivi prodotti nel corso dell’intero ciclo.

Se oggi a livello mondiale la produzione di energia tramite il nucleare, nonostante l’incidente di Cernobyl, gode ancora di un certo credito e di una patente di convenienza economica fra le fonti energetiche esistenti, lo si deve solamente alla profonda opera di mistificazione messa in atto dai fautori dell’atomo che sono soliti nascondere sotto il “tappeto” il problema delle scorie radioattive, evitando di contabilizzare i costi della loro gestione presente e futura. Costi che in presenza di un serio e consapevole trattamento delle scorie in funzione della loro ferale pericolosità, avrebbero già da tempo decretato la morte di ogni programma energetico basato sul nucleare.
Le scorie nucleari sono derivate dal combustibile esausto originatisi all’interno del reattore nucleare nel corso dell’esercizio, ma anche dagli scarti di lavorazione e dai rottami metallici. Sono molte le categorie nelle quali vengono suddivise le scorie nucleari e sostanzialmente dipendono dal loro stato, solido, liquido o gassoso, dal potenziale di radioattività in esse contenuto e dalla durata nel tempo della loro pericolosità. Sostanzialmente i rifiuti radioattivi si dividono in tre gruppi: Le scorie a bassa attività costituite da carta, stracci, indumenti, guanti, soprascarpe, filtri liquidi, derivanti oltre che dalle installazioni nucleari anche dagli ospedali , dalle industrie e dai laboratori di ricerca. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 200 m³.
Le scorie a media attività, costituite dagli scarti di lavorazione, dai rottami metallici, dai liquidi, fanghi e dalle resine esaurite, derivanti principalmente dalle centrali nucleari, dagli impianti di riprocessamento e dai centri di ricerca. Un tipico reattore nucleare ne produce circa 100 m³ l’anno.
Le scorie ad alta attività, costituite dal combustibile nucleare irraggiato e dalle scorie primarie del riprocessamento, derivanti unicamente dalle centrali nucleari e dagli impianti di riprocessamento. Un tipico reattore nucleare ne produce annualmente circa 30 tonnellate che corrispondono una volta riprocessate a 4 m³ di materiale vetrificato.
Le scorie a bassa e media attività resteranno pericolose per alcune centinaia d’anni (circa 300) quelle ad alta attività, che costituiscono solo il 3% del volume totale ma rappresentano da sole il 95% della radioattività complessiva, manterranno la loro carica mortale per molte migliaia di anni (fino a 250.000 anni).

Stiamo perciò parlando di periodi estremamente significativi sull’asse temporale, che vanno molto al di là non solo dell’arco di una vita umana, ma anche della possibile durata di una “civiltà” e perfino della storia dell’esistenza umana così come noi la conosciamo. Questi dati dovrebbero bastare essi soli a darci la dimensione dell’incommensurabile grandezza del problema con il quale ci stiamo confrontando e dell’assoluta impossibilità della tecnologia scientifica attuale (e con tutta probabilità anche futura) di smaltire in una qualche maniera l’enorme carico di materiale radioattivo che anno dopo anno si sta accumulando come conseguenza dell’attività delle oltre 400 centrali nucleari disseminate sul pianeta. Ogni anno queste centrali, presenti in 31 nazioni producono migliaia di tonnellate di scorie, ogni anno gli Stati Uniti producono 2300 tonnellate di rifiuti radioattivi e nella sola Francia si produce una quantità di nuove scorie pari a tutte quelle presenti in Italia.

Nei paesi membri della IAEA sono attivi oltre 70 depositi definitivi per rifiuti nucleari a bassa radioattività (circa 300 anni) una dozzina sono già stati chiusi, una decina stanno per chiudere, almeno 20 sono in fase di costruzione e molti altri sono in fase di progettazione. La maggior parte di essi (circa il 90%) sono costruiti in superficie e costituiti da trincee, tumuli, silos e sarcofaghi di calcestruzzo, volti a garantirne la conservazione in tutte le condizioni prevedibili. Il restante 10% è costituito da depositi posti in cavità sotterranee o in formazioni geologiche profonde. A garanzia della sicurezza di tali depositi sono state adottate barriere artificiali più o meno complesse (a seconda della rigidità del clima e delle caratteristiche del territorio) e sistemi di monitoraggio ambientale estesi oltre che al deposito anche alle aree circostanti. Appare comunque evidente come sia un esercizio sillabico privo di senso parlare di sicurezza facendo riferimento ad un periodo temporale di 300 anni. Anche nel caso (non sempre probabile) di una perfetta tenuta delle strutture per tutto l’arco di tempo, subentrerebbe infatti l’altissimo rischio di eventi imponderabili quali attentati terroristici, guerre, terremoti, alluvioni ed incidenti di vario genere, la cui possibilità in un periodo così lungo risulta tutt’altro che remota.

I depositi definitivi esistenti nel mondo riguardano esclusivamente i rifiuti nucleari a bassa radioattività e viene spontaneo domandarsi cosa sia stato fatto per quanto concerne le scorie ad alta radioattività, minori quantitativamente ma enormemente più pericolose in quanto fonti di radiazioni per decine di migliaia di anni, fino a 250.000 anni. In realtà per mettere in sicurezza i rifiuti nucleari ad alta radioattività non è stato fatto assolutamente nulla, o meglio tutto il gotha della tecnologia mondiale ha dimostrato di non avere assolutamente né i mezzi né tanto meno le conoscenze tecnico/scientifiche per affrontare un problema che travalica di gran lunga le capacità operative dell’essere umano, qualunque siano le sue competenze tecniche. Rapportarsi con periodi di tempo il cui ordine è quello delle ere geologiche significa abbandonare ogni stilla di realismo, per rifugiarsi fra le pieghe dell’utopia, dell’incoscienza e della pazzia. Nulla e nessuno potrà mai prevedere le mutazioni di ogni genere che riguarderanno il pianeta nei prossimi 100/200 mila anni, né individuare luoghi o spazi adatti a stipare in sicurezza le scorie ad alta radioattività in un futuro tanto lontano.

Ciò nonostante, almeno virtualmente, alcune ipotesi sono state prese in considerazione. Una delle più realistiche consiste nel depositare i rifiuti radioattivi dentro formazioni geologiche naturali, profonde centinaia o migliaia di metri. Tale soluzione, che potrebbe avere un senso per quanto concerne le scorie a bassa radioattività, ne diviene priva se riferita ai rifiuti altamente radioattivi, in quanto durante svariate decine di migliaia di anni anche la conformazione di grotte e caverne è per forza di cose destinata a mutare radicalmente. Fra le opinioni maggiormente condivise a livello scientifico vi è anche quella che ventila il ricorso ad un unico deposito geologico internazionale, localizzato in uno dei luoghi più remoti del pianeta. A tale proposito è nato il progetto Pangea, finanziato da enti internazionali, con il compito d’individuare eventuali aree adatte allo stoccaggio delle scorie. Tale progetto ha finora individuato siti d’interesse nell’area più remota dell’Australia, in Sud America e in Asia, ma che si tratti di un deposito unico o di più depositi il problema resta sempre lo stesso: affidabilità limitata al futuro prossimo, a fronte di un investimento di capitale talmente ingente da far diventare quella nucleare la fonte energetica di gran lunga più costosa.

In attesa di una soluzione che mai potrà essere trovata, le 440 centrali nucleari sparse per il mondo continuano ad operare a pieno regime, contribuendo ad aumentare considerevolmente ogni anno l’enorme quantitativo di scorie già presente ed i rifiuti ad alta radioattività vengono semplicemente stoccati in depositi “di fortuna” in attesa di un trasferimento definitivo che non avverrà mai.
Negli Stati Uniti, dove Gorge W. Bush auspica uno sviluppo del nucleare magnificandone le qualità “ecologiche” il Dipartimento dell’energia (DOE) per risolvere (in realtà porre una pezza) il problema delle scorie nucleari impiegherà dai 70 ai 100 anni, spendendo dai 200 ai 1000 miliardi di dollari. Il suo programma prevede di decontaminare le 10 principali aree inquinate del paese e di raccogliere il materiale radioattivo più pericoloso, disperso in svariati siti, per poi trasportarlo in due grandi depositi sotterranei adatti ad una sistemazione definitiva. Il progetto dovrà superare difficoltà quanto mai ostiche, quali la decontaminazione di aree vastissime (grandi addirittura la metà della Valle D’Aosta) e la ricerca di un sistema di trasporto sicuro che consenta di trasferire per migliaia di chilometri le scorie più pericolose ed individuare una sistemazione che possa restare sicura per molte decine di migliaia di anni.
Uno dei depositi sotterranei è stato identificato nel 2002 nel Nevada meridionale, circa 160 km a nord ovest di Las Vegas, sotto il monte Yucca. Il costo e la complessità dell’operazione sono enormi. Solo per gli studi preliminari del terreno e il progetto sono stati spesi circa 7 miliardi di dollari e per la costruzione del deposito è previsto un esborso di almeno 60 miliardi di dollari. Nel ventre della montagna è prevista la conservazione di 77.000 tonnellate di scorie radioattive, stipate in oltre 12.000 contenitori. A circa 300 metri di profondità verrà scavata una rete di tunnel sotterranei a spina di pesce della lunghezza di 80 km. Il materiale radioattivo, attualmente conservato in 131 depositi distribuiti in 39 stati, verrà trasportato attraverso 4.600 fra treni ed autocarri che dovranno attraversare 44 stati. Con tutta probabilità quando il deposito sarà terminato, non prima del 2015, la quantità di nuove scorie accumulatesi nel corso degli anni (al ritmo di 2300 tonnellate/anno) richiederà immediatamente la costruzione di un nuovo deposito. Inoltre studi scientifici effettuati da commissioni non governative hanno dimostrato che sarà impossibile nel lungo termine impedire le infiltrazioni delle acque sotterranee nel deposito, inficiando in questo modo la “garanzia” di circa 10.000 anni (comunque largamente insufficiente) della quale era accreditato l’impianto. Attualmente la situazione è in fase di stallo, poiché lo stesso Dipartimento dell’Energia americano ha denunciato forti sospetti concernenti una serie di gravi omissioni ed irregolarità compiute dai tecnici del servizio geologico, al fine di costruire in maniera fraudolenta elementi che confermassero la sicurezza del sito di Yucca Mountain. Larga parte del mondo scientifico non ritiene inoltre che lo stato attuale della tecnologia possa permettere di stoccare adeguatamente i rifiuti radioattivi e preferirebbe continuare a stoccare le scorie nucleari in maniera provvisoria all’interno di enormi “bare” di cemento armato per alcune decine di anni, al fine di affrontare il problema successivamente, confidando in una tecnologia più raffinata che possa offrire un maggior ventaglio di soluzioni.
Fra 50 o 100 anni, secondo gli esperti, i rifiuti nucleari avrebbero oltretutto subito un certo decadimento radioattivo e risulterebbero più facilmente trattabili. Il fatto che il paese più tecnologicamente avanzato al mondo si trovi praticamente nella situazione di non avere soluzioni concrete al problema scorie dovrebbe indurre a più di una riflessione.

L’attuale stato di conservazione delle scorie nei vari paesi è spesso estremamente precario ed anche le più elementari norme di sicurezza non sono neppure prese in considerazione, costituendo la potenziale occasione per incidenti di gravità anche superiore a quello di Cernobyl. Questo non avviene solo nei paesi meno sviluppati e nell’est europeo, ma anche negli stessi Stati Uniti. Attualmente a Hanford, non lontano da Seattle, le scorie radioattive dei reattori nucleari impiegati per costruire armi atomiche sono state conservate per venti anni in contenitori inadeguati, per di più gli agenti chimici utilizzati per neutralizzare il materiale radioattivo si sono nel tempo decomposti in sostanze altamente esplosive. Pertanto quei contenitori sono diventati delle vere e proprie bombe atomiche, pronte a esplodere alla prima scintilla. Per risolvere il problema sono oggi impiegate 1240 persone, con un budget annuale di 500 milioni di dollari. I contenitori sono ben 177, con un diametro medio di oltre venti metri e con una capacità complessiva di oltre 160 milioni di litri. Nel 1990 la Westinghouse, società incaricata dell’ispezione, rifiutò persino di esaminare il famigerato contenitore 101SY in quanto nessuno era in grado di immaginare quale sostanza fosse stata generata dalle reazioni chimiche in corso e quanto pericoloso potesse essere l’immersione di una sonda.
Soltanto un anno dopo la Westinghouse riuscì a immettere un video-registratore e il nastro di quella registrazione fece il giro delle stazioni televisive americane, mostrando qualcosa di molto simile al centro di un vulcano alla vigilia di un’eruzione. Persino l’uranio usato da Enrico Fermi nel 1942 è ancora in attesa di una sistemazione finale.

Risulta dunque evidente come la questione delle scorie radioattive rappresenti un problema enorme, sia dal punto di vista gestionale sia da quello economico, per tutti coloro che hanno “sposato” il nucleare sia per l’uso civile che per quello militare. La “banda dell’atomo” che anche in Italia sta tentando di riproporsi con la promessa di energia a buon mercato può solo fingere che i rifiuti radioattivi non esistano, poiché qualunque tentativo serio di smaltimento degli stessi, avrebbe dei costi esorbitanti (a fronte di ben scarsa resa) e li metterebbe inevitabilmente fuori dai giochi. Il pericolo più grave, posto nell’immediato, è quello che alcune organizzazioni (molte delle quali private) fra quelle che gestiscono le centrali ed il loro contenuto, scelga la strada più semplice e decida di far “sparire” le proprie scorie, magari in fondo al mare o interrandole in vecchie cave e gallerie in disuso, confidando nel fatto che ben difficilmente in tempi brevi un simile crimine ecologico verrebbe alla luce.

Ma dal momento che nelle premesse abbiamo parlato di Saluggia, apriamo un breve inciso concernente il rapporto che l’Italia ha con le proprie scorie nucleari. In Italia tutto ciò che oggi riguarda il nucleare fa capo alla Società Gestione Impianti Nucleari s.p.a. (SOGIN) istituita nel 1999, che ha incorporato tutte le strutture e le competenze che prima appartenevano all’Enel nell’ambito del nucleare. Presidente della SOGIN è stato fino a pochi mesi fa il generale Carlo Jean che nel febbraio 2003 quantificò i rifiuti radioattivi presenti in Italia in: circa 50.000 m³ di scorie radioattive a bassa e media radioattività, circa 8.000 m³ di scorie radioattive ad alta radioattività, 62 tonnellate di combustibile irraggiato che si trovano ancora oggi in Francia , diversi "cask" di combustibile riprocessato che attualmente sono in Gran Bretagna (Sellafield) oltre ad ospedali, acciaierie, impianti petrolchimici e così via che producono circa 500 tonnellate di rifiuti radioattivi ogni anno. Dal 1989 in poi il cittadino italiano ha iniziato a pagare, attraverso un’addizionale sulle bollette Enel, i cosiddetti “oneri nucleari” destinati in un primo tempo a compensare l’Enel e le altre società collegate per le perdite conseguenti alla dismissione delle centrali. Dal 2001 in poi e fino al 2021 gli oneri saranno destinati alla SOGIN e finalizzati alla messa in sicurezza degli 80.000 m³ di scorie radioattive frutto dell’attività nucleare. Alla data del 2021 i cittadini avranno pagato attraverso addizionali sulla bolletta Enel la cifra astronomica di 11 miliardi di euro, pressappoco la metà dell’ultima manovra finanziaria.

Con la legge 368 del 2003, contemporaneamente alla nomina del generale Jean quale Commissario con poteri speciali per il nucleare, il premier Silvio Berlusconi elenca gli impianti atomici che devono essere smantellati e dispone l’individuazione di un Deposito Nazionale nel quale le scorie radioattive dovranno essere stoccate. Il 13 novembre 2003 il Consiglio dei Ministri approva un decreto nel quale individua a Scanzano Jonico, in basilicata il sito nazionale nel quale accumulare le scorie derivanti dalla dismissione delle centrali nucleari. Il costo dell’operazione, comprensivo degli studi necessari per valutare l’idoneità del sito e degli oneri conseguenti al trasporto dei materiali pericolosi arriva nelle previsioni a sfiorare i 2 miliardi di euro. La conseguenza di questa decisione è lo scatenarsi di una vera e propria rivolta da parte degli abitanti e delle autorità di Scanzano e dell’intera basilicata. Proteste, cortei e blocchi stradali si susseguono praticamente senza soluzione di continuità e il 27 novembre il governo si vede costretto a modificare il decreto, togliendo il nome di Scanzano ed impegnandosi ad identificare entro 18 mesi un nuovo sito nazionale che dovrà essere completato entro e non oltre il 31 dicembre 2008. Di mesi da allora ne sono passati quasi 40 ed il 65% dei rifiuti radioattivi italiani continua ad essere conservato nei pressi della cittadina di Saluggia in una conca alluvionale in riva alla Dora Baltea, in un luogo giudicato “indifendibile” dagli stessi servizi segreti italiani.

Già durante l’alluvione del 2000 l’acqua del fiume arrivò a lambire le scorie e il premio Nobel Carlo Rubbia dichiarò che se il livello del fiume fosse stato solo di pochi centimetri più alto, avremmo assistito all’inquinamento della Dora, del Po e del Mare Adriatico, creando una catastrofe di proporzioni superiori a quella di Cernobyl. Recentemente un’ordinanza emanata dallo stesso generale Jean ha conferito alla SOGIN il diritto di costruire nel sito Eurex di Saluggia due nuovi depositi per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Tali depositi, uno per le scorie a bassa e media radioattività, l’altro per quelle ad alta radioattività, della capienza rispettivamente di 46.000 e 8.000 m³vengono definiti sulla carta temporanei, ma tutta l’architettura dei nuovi progetti sembra antitetica a quella della loro destinazione d’uso di edifici provvisori. La costruzione dei depositi a Saluggia dimostra chiaramente che Sogin non ha alcuna intenzione di procedere all’apertura (come da legge) del deposito nazionale definitivo entro il 31 dicembre 2008 e che l’intendimento è quella di lasciare il 65% dei rifiuti radioattivi italiani stoccati a tempo indefinito nella cittadina piemontese, in una zona del tutto inadatta a questo genere di operazione, poiché ad alto rischio alluvionale, a brevissima distanza dai pozzi dell’acquedotto che serve tutto il Monferrato e già sta subendo infiltrazioni radioattive.

Negli Stati Uniti, come in Italia e nel resto del mondo la “banda dell’atomo” è sempre pronta a spendersi in un’improbabile battaglia per il rilancio del nucleare, ma quando si tratta di affrontare la gestione delle scorie radioattive, brancola nel buio senza riuscire a proporsi con un minimo di credibilità. Il rischio connesso ai rifiuti radioattivi è altissimo e lo diventerà sempre più negli anni a venire in quanto la tecnologia non è assolutamente in grado di far fronte alle conseguenze mostruose di ciò che essa stessa ha ingenerato.

domenica 29 gennaio 2006

La farsa olimpica

Marco Cedolin

I Giochi Olimpici di "Torino 2006" che fra pochi giorni prenderanno il via, non mancheranno di essere ricordati a lungo, ma non saranno atleti, medaglie e prestazioni sportive ad essere oggetto della memoria, in quanto proprio lo sport si manifesterà come il grande assente di queste Olimpiadi. Mai come in questo caso (anche se nella storia olimpica recente i precedenti certo non mancano) gli unici veri protagonisti dei Giochi, fin dai primi momenti della loro preparazione, sono stati il business selvaggio, la speculazione indiscriminata, il mancato rispetto dei diritti dell’individuo, l’assoluto disprezzo nei confronti del territorio e dell’ambiente. L’organizzazione della manifestazione, che per ironia della sorte annovera fra i suoi palcoscenici proprio quella Valle di Susa che ha avuto il coraggio d’insorgere contro l’ennesima speculazione portata avanti dai grandi poteri politici, economici e finanziari, ha fatto fino ad oggi parlare di sé per peculiarità che non rivestono in verità un carattere prettamente sportivo. L’aver bruciato, in un paese come il nostro che oggettivamente non versa certo in un buon stato di salute economica, enormi risorse finanziarie per circa 4 miliardi di euro (l’equivalente del progetto per il ponte sullo stretto di Messina) nella costruzione d’infrastrutture invasive e spesso di dubbia utilità e nella cementificazione sistematica delle località montane teatro delle future gare, non è stata un’azione dalla quale potere esperire i dettami di quello “spirito olimpico” che avrebbe dovuto animare gli organizzatori.

Il sistematico utilizzo nei cantieri olimpici, che hanno trasformato Torino in una città più adatta alle talpe che non al normale deambulare degli esseri umani, di manodopera in nero pagata dai 3 ai 5 euro l’ora e privata dei più elementari diritti che spettano a un lavoratore, si è rivelato uno “sport estremo” che è stato causa d’innumerevoli incidenti in quella nuova disciplina olimpica che è il “lavoro tramite caporalato”. L’assunzione di circa 40.000 volontari ai quali demandare la manovalanza nella macchina organizzativa e nella gestione dell’accoglienza ha contribuito a creare una nuova forma di occupazione a costo zero che anziché distribuire ricchezza si contenta di dispensare quei buoni sentimenti (purtroppo ipocalorici e poco commestibili) tanto cari agli organizzatori del Toroc che ne fanno volentieri a meno devolvendoli a piene mani.
Questi volontari saranno gratuitamente forniti di una divisa sgargiante che, per aiutare l’occupazione piemontese, si è pensato bene di fare fabbricare in Cina.

Almeno 15.000 uomini delle forze dell’ordine invaderanno Torino e le vallate olimpiche per garantire la sicurezza degli atleti, degli addetti ai lavori e degli abitanti, anche se gli abitanti, in special modo quelli della valsusa, dopo le recenti esperienze ritengono di sentirsi molto più sicuri quando caschi scudi e manganelli evitano di fare capolino di fronte alle loro case. Il “braciere olimpico” nel quale arderà il sacro fuoco, il più grande della storia, brucerà 8000 metri cubi l’ora di gas, per un totale di circa 3 milioni di metri cubi durante l’intera durata dei giochi, tutto ciò mentre a causa della penuria dei rifornimenti russi, lo Stato ha chiesto ai cittadini di diminuire il riscaldamento nelle case per far fronte all’handicap energetico.

Il business collegato agli sponsor, fra i quali spiccano nomi quali “Coca cola”, “Adecco”, “Mc Donalds” e “Finmeccanica (fra i più grandi magnati mondiali della produzione di armi)” tutte multinazionali che notoriamente trovano nello spirito olimpico e sportivo la vera ragione della propria esistenza, si è rivelato quanto mai redditizio. Talmente remunerativo da avere dato origine ad un vero e proprio “supermercato olimpico” nel quale saranno in vendita gadget di ogni genere e foggia, intere collezioni di abbigliamento, scarpe, occhiali, tazze, profumi, puzzles, vini, cioccolatini ed ogni altro oggetto sul quale sia possibile applicare un logo. In ossequio alla Coca Cola, fra gli sponsor più impegnati nel campo del sociale, soprattutto in Colombia dove risulta essere leader indiscussa in questo genere di tematiche, gli organizzatori sono perfino riusciti a superarsi, dimostrando una volta di più che al peggio non vi è mai limite.

La fiaccola olimpica, disegnata con una foggia avveniristica che non avrebbe mancato di entusiasmare Filippo Tommaso Martinetti, ed opportunamente griffata con il marchio della bevanda è stata deputata ad attraversare le strade di ogni città e cittadina del nostro Paese, nella quale fossero presenti almeno un migliaio di anime in grado di recepire il “messaggio olimpico” opportunamente veicolato da furgoni e banchetti della multinazionale. Alcune volte nel proprio incedere fra le vie cittadine i tedofori che si sono fatti carico di trasportare la fiaccola sponsorizzata sono stati oggetto di contestazioni veementi da parte di cittadini che non sono riusciti a cogliere lo spirito di sport e convivialità che traspare in maniera adamantina da questi Giochi Olimpici.
Tutta colpa ovviamente dei NO TAV valsusini che hanno innescato nel paese il germe del sospetto e della contestazione. La cosa più avvilente fra tutte è che mancano ancora alcuni giorni all’inizio delle Olimpiadi e per almeno un mese saremo costretti a sopportare la farsa di questa manifestazione divisa a metà fra business e speculazione edilizia, ma in grado di catalizzare tutta l’attenzione mediatica, poiché lo spirito olimpico, si sa, in fondo in fondo è quello che conta.

mercoledì 16 novembre 2005

Questa finanziaria è come un sacco vuoto

Marco Cedolin

La prima impressione che si prova nel leggere il testo integrale del disegno di legge finanziaria presentato durante questi giorni al parlamento è quella di trovarsi dinanzi ad una costruzione la quale tenta di presentarsi come un progetto architettonico omogeneo e coerente, ma in realtà finisce per rivelarsi solamente un mero artificio volto a nascondere lo stato di assoluta inanità del governo, impossibilitato a raschiare per l’ennesima volta il fondo di un barile la cui base è ormai stata erosa da tempo.

Pur guardandosi bene dal volere assumere toni da cassandra e dal cadere nella facile demagogia in virtù della quale tutto ciò che viene esperito dal governo Berlusconi è per forza di cose negativo e riprovevole, non si riesce comunque a comprendere, anche facendo ausilio a massicce dosi di fantasia, come lo stentoreo incedere dei 60 articoli dei quali il disegno si compone, potrebbe magicamente preludere alla più volte vagheggiata ripresa economica del nostro paese.
L’unico dato certo ed incontrovertibile è rappresentato dallo stanziamento degli 11,5 miliardi di euro necessari ( e probabilmente non sufficienti) a riportare il rapporto deficit/ pil all’interno dei margini concordati con l’Unione Europea.
Tutto il resto della manovra è permeato da una sensazione di vaghezza, con ampio ricorso a situazioni estemporanee, difficilmente in grado di ottenere risultati di sorta.
Sia nell’ottica del reperimento delle risorse, sia in quella della destinazione delle stesse, emerge dal testo, quasi a livello epidermico, l’assoluta mancanza d’idee e la scarsa volontà d’impostare qualsivoglia strategia in grado d’incidere significativamente sulla drammatica situazione nella quale versa il paese.
Ma entriamo nel merito dei tratti salienti del disegno, per quanto molti di essi siano ad oggi solo tratteggiati e probabili oggetto di successive modificazioni, integrazioni e specificazioni.

Senza dubbio uno dei punti più controversi della manovra è costituito dal taglio di quasi 7 punti percentuali, della spesa corrente degli enti locali. Si tratta di una enorme sottrazione di risorse nei confronti di comuni, province e regioni, di fronte alla quale molti amministratori stanno protestando con veemenza, mentre il governo si difende assicurando che codesti tagli non influiranno sulla qualità dei servizi offerti al cittadino.
In realtà pare evidente il fatto che finirà per ricadere sulle economie delle famiglie italiane, già asfittiche ed in gravissima crisi, se non tutto almeno buona parte del peso di questa sforbiciata.
La ricaduta si manifesterà nel tempo sia sotto forma di un incremento di disservizi pubblici, sia sotto forma di aumenti nelle aliquote delle tasse pagate dai cittadini, nei confronti di quegli enti locali che saranno alla spasmodica ricerca di denaro per i loro bilanci.

Molto interessante risulta anche notare come il governo abbia inteso bloccare in quasi tutti i settori della pubblica amministrazione le assunzioni a tempo indeterminato, facendo altresì ampio ricorso ai contratti a tempo determinato, che ovviamente offrono prospettive notevolmente più scarse sia dal punto di vista occupazionale che da quello della remuneratività.
Ho scritto quasi, poiché in realtà esiste un’eccezione, sia per quanto concerne la possibilità di nuovi contratti a tempo indeterminato (ne sono previsti almeno7000) sia per quanto concerne l’assoluta impermeabilità del settore ad ogni politica di riduzione della spesa e si tratta dell’ordine pubblico e della difesa.
Continuando ad agitare lo spauracchio della catastrofica minaccia terroristica, tanto caro al ministro Pisanu, s’intende in questa finanziaria imporre una politica di risparmio e sacrificio ad ogni comparto della pubblica amministrazione, incrementando invece gli investimenti in uomini e mezzi da destinare alle forze dell’ordine e all’esercito. In questo stesso ordine d’idee s’inserisce anche il sontuoso rifinanziamento delle molteplici operazioni di pace keeping o illegale occupazione del suolo straniero (fate voi) che i militari italiani gestiscono in varie parti del mondo (Iraq compreso).

Non convince neppure l’addizionale a carico delle grande reti di trasmissioni dell’energia, attraverso la quale il governo spera di ricavare quasi 1 miliardo di euro.
Non convince poiché appare chiara la sua inevitabile ricaduta su coloro che questa energia la consumano, cioè cittadini e le imprese che si troveranno inevitabilmente a farsi carico di questo esborso attraverso un rincaro delle bollette.

Altrettanto negativo per i bilanci famigliari risulta “l’aggiornamento” (traducendo dal politichese l’aumento) delle sanzioni civili amministrative e penali pecuniarie dal quale è previsto un ricavo di almeno 100 milioni di euro.

Fantasioso ed assolutamente nebuloso nel merito della maniera con la quale s’intende procedere alla sua attuazione, risulta il capitolo dedicato ai proventi derivanti dalla lotta all’evasione fiscale.
Leggendolo si finisce per apprezzare solamente piccole variazioni in burocratese all’uno o all’altro comma e si acquisisce la consapevolezza che molto probabilmente il tutto si tradurrà nell’ennesimo condono, utile a dare una boccata d’ossigeno alle finanze dello stato e ad arricchire la legittimità dei grandi evasori fiscali.

Dopo questa breve analisi di alcuni strumenti attraverso i quali il governo intende reperire i fondi e le perplessità sopra esposte, tentiamo ora di esperire dal testo del disegno di legge finanziaria le modalità attraverso le quali s’intende risollevare le sorti dell’economia, aumentare il potere d’acquisto delle famiglie e restituire competitività alle imprese, un punto fondamentale se realmente si vuole tentare di uscire dalla profonda crisi nella quale il nostro paese si è invorticato e che rischia di pregiudicare gravemente l’immediato futuro di tutti noi.

A questo proposito non si riesce registrare altro che il vuoto assoluto. Manca ogni sorta d’idea in grado d’incidere anche solo marginalmente sul problema, mancano le coperture finanziarie per mettere in atto un’eventuale idea seria che si fosse riscontrata, manca perfino la fantasia indispensabile per immaginare qualcosa di diverso.
Le proposte che si ventilano sono tentativi estremamente puerili aventi il solo scopo di ottenere qualche risultato nell’immaginario collettivo degli elettori, non certo di creare qualche sia pur minimo riscontro nella realtà delle cose.

Accantonato definitivamente (perlomeno fino a quando non sarà l’Europa ad imporcelo) il più volte ventilato taglio dell’Irap per le imprese, oggetto d’innumerevoli dibattiti televisivi e non, il governo ha deciso di operare una riduzione del cuneo contributivo attraverso un taglio dell’1% dei contributi sociali delle imprese, intendendo in questo modo migliorare la competitività delle stesse.
Lascio a voi che leggete il giudizio su quanto tale provvedimento possa incidere sui problemi di competitività che affliggono l’imprenditoria italiana, ma ritengo sia l’equivalente di fingersi in procinto di svuotare il mare adriatico con l’ausilio di un setaccio.

Ancora più ridicolo e permeato di falsa utopia appare l’approccio con la perdita di potere di acquisto delle famiglie ed il conseguente calo dei consumi.
Si ventila un assegno per ogni secondo figlio od ulteriore, nato a partire da gennaio 2005, prescindendo dal quantificare l’entità del medesimo.
La ricaduta di un simile provvedimento, oltre ad essere minimale ed ovviamente legata all’importo dell’eventuale bonus, finirebbe se attuata per favorire una sola parte della popolazione e non necessariamente quella più disagiata.
Aiuterebbe solo le coppie con due o più figli mentre non prenderebbe in considerazione l’enorme quantità di giovani e meno giovani senza lavoro o con un lavoro precario, i quali non riescono neppure ad avere un reddito minimo che consenta loro di uscire dalla famiglia d’origine al fine di crearsene una propria, nonché tutti i single che faticano oltremisura per mantenersi dignitosamente con uno stipendio eroso ogni giorno di più, per non parlare di tutte quelle famiglie che al secondo figlio hanno dovuto rinunciare (e certo non sarà questo assegno a permettere loro di cambiare idea) in quanto si trovano in estrema difficoltà nel mantenere il primo.

Si legge di una somma aggiuntiva di 535 euro a favore dei soggetti disagiati, intendendo per soggetti disagiati quella estremamente esigua fascia di persone che già percepisce un minimo sussidio.
Mi astengo da ogni osservazione sulla valenza oggettiva dei 535 euro, limitandomi ad osservare come anche questo punto sia ben lontano dall’influire sul problema del potere d’acquisto delle famiglie.

Si ventila un 5 per mille d’indennizzo per i risparmiatori oggetto dei grandi crack finanziari del paese. Nulla da eccepire sul valore simbolico di un simile gesto, che però resta nell’ambito della simbologia, nonché in quello della sperequazione sociale, in quanto per quale arcana ragione chi ha perso i propri risparmi in un grande fallimento stile Cirio avrà diritto a un qualche risarcimento da parte dello stato, mentre di contralto chi li ha persi in altri crack aventi avuto meno risonanza mediatica di questo diritto sarà privato?

Dell’ipotesi di aumento a 600 euro delle pensioni minime, come dell’eventualità di un finanziamento statale dei libri di testo abbiamo avuto notizia dalle interviste dei vari soggetti politici, nell’ambito del circo mediatico dell’informazione, all’interno del quale proposte ed idee a favore delle famiglie italiane nascono e muoiono in una dissolvenza, senza durare molte volte più di 24 ore.Molte ipotesi a questo riguardo ci accompagneranno probabilmente nei prossimi mesi fino alla fine dell’anno, ma l’unica vera sensazione che mi pervade è quella di trovarmi dinanzi ad un sacco vuoto, vuoto d’idee e di contenuti, all’interno del quale pur continuando a frugare non si riesce a trovare neppure la speranza.

lunedì 14 novembre 2005

Incubo TAV

Marco Cedolin

La storia che voglio raccontarvi parla di grandi capitali e di piccoli uomini, di treni che correranno vuoti a 300 km/h dentro a gallerie scavate nell’uranio, di società private costituite con il denaro pubblico, piramidi di Cheope fatte di smarino e grattacieli di fibre d’amianto, di cittadini che difendono i propri diritti additati come canaglie e di canaglie senza scrupoli … … che si fingevano persone attente all’ambiente e ai diritti dei propri cittadini, di sindaci bastonati dalla polizia in una Valle decisa a resistere all’ennesimo stupro del proprio territorio, di come un grande investimento non produrrà altro che impoverimento, di quando le parole degli esperti vengono trasformate in sussurri ed il biascicare incompetente dei politici assurge a realtà incontrovertibile.

La storia inizia il 7 agosto 1991 con la nascita di Tav spa, la società a capitale misto pubblico e privato deputata a costruire in Italia quasi 900 km di linee ferroviarie per i treni ad alta velocità.In realtà dopo il disastroso risultato economico del tunnel sotto la Manica non si riscontrava assolutamente traccia di privati disposti a rischiare il proprio capitale nella costruzione di grandi infrastrutture e quello di presentare Tav spa come una società a capitale misto era un mero artificio volto a far si che l’Italia potesse rispettare i parametri di Maastricht che imponevano il rapporto deficit-pil al 3%. Lo Stato garantì il finanziamento del 40% in conto capitale, mentre finanziò il restante 60% (quello di appannaggio dei privati) attraverso prestiti bancari, accollandosi gli interessi degli stessi fino al completamento dell’opera.
Il 10 marzo 1998 le Ferrovie di Stato che detenevano la maggioranza del capitale pubblico acquisirono il 100% di Tav spa e dal primo gennaio del 2003, ormai nell’ambito della “legge obiettivo” Tav spa è entrata nell’orbita di Infrastrutture spa, il cui azionista unico è la Cassa Depositi e Prestiti.

Tutto questo gioco di scatole cinesi, nato una quindicina di anni fa dalla fervida fantasia dell’allora ministro del Bilancio Cirino Pomicino e perfezionato poi dal governo Berlusconi sotto il nome di “project financing” ha come unico scopo quello di permettere allo Stato di contrarre enormi debiti, senza però doverli iscrivere nel proprio Bilancio, evitando così che essi incidano nei parametri del Patto Europeo di stabilità. I privati esistono veramente ma rivestono il ruolo di General Contractor grazie al perfezionamento di un’altra “intuizione” del buon Cirino Pomicino.Fiat IRI ed ENI (i General Contractor) sono concessionari con l’esclusione della gestione, hanno cioè tutti i poteri del committente pubblico nella gestione dei subappalti, nella direzione dei lavori, negli espropri, ma non hanno poi la gestione diretta dell’opera, (caso unico in Europa) per cui il loro solo interesse, essendo disancorati dalla successiva gestione, sarà quello di fare durare i lavori il più a lungo possibile al fine di fare levitare al massimo la spesa.
Inoltre il General Contractor a differenza del concessionario tradizionale di lavori o servizi pubblici potrà affidare i lavori a chi vuole anche con trattativa privata ed essendo un privato non sarà mai perseguibile per corruzione, in quanto eventuali tangenti potranno essere giustificate sotto forma di “provvigioni”.
Un’architettura senza dubbio ingegnosa attraverso la quale si trasferisce tutto il rischio d’impresa dal privato allo Stato che alla fine dei lavori sarà però costretto a restituire i prestiti delle banche, aprendo così una voragine senza fondo nella quale precipiterà giocoforza la nostra già fragile economia.

La conseguenza di tutto ciò è che il progetto dell’Alta Velocità, presentato nel 1991 con un costo previsto di 26.180 miliardi di lire, rischierà invece di costare, una volta terminato in un lontano futuro, circa 80 miliardi di euro e gli italiani ne pagheranno i debiti fino al 2040 ad un ritmo di 2 miliardi e 300 milioni di euro l’anno. Ci sarebbero molte altre cose da raccontare concernenti questi 14 anni nei quali il progetto Alta Velocità ha preso forma e mosso i suoi primi passi, anni nei quali la zona del Mugello è stata devastata dalle gallerie con conseguenze idrogeologiche irreversibili, anni nei quali personaggi legati a doppio filo alla politica e all’imprenditoria come Necci Lorenzo, Pacini Battaglia, Icalza Ercole e molti altri si sono spartiti tangenti miliardarie, sono stati indagati, hanno corrotto giudici, vinto e perso processi, il tutto continuando a mantenere sempre posizioni preminenti all’interno delle istituzioni.
Anni di grossi guadagni per chi come l’attuale ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi, attraverso la Roksoil azienda di famiglia si è aggiudicato un numero infinito di opere e consulenze o chi come Romano Prodi fondò la Nomisma, società bolognese indagata nel 1992 nell’ambito di una consulenza miliardaria sull’Alta Velocità, le cui conclusioni a fronte di un’analisi quanto mai approfondita e retribuita si manifestavano nell’enunciato che “la velocità fa risparmiare tempo”. Anni nei quali 13.779 lavoratori impegnati nel progetto Tav hanno lavorato a ciclo continuo con turni che potevano impegnarli anche per 48 ore di seguito, in gallerie dove l’aria era inquinata, la luce poca ed i rischi molti, come molti sono stati fra loro gli operai deceduti in incidenti sul lavoro. Basti pensare che nei soli primi 6 mesi di lavori sulla tratta Torino - Novara si sono annoverati 350 infortuni dei quali 2 mortali.

Ma la storia che voglio raccontarvi è una storia ad Alta Velocità, dove non esiste tempo per soffermarsi a riflettere, valutare i giudizi degli esperti, confrontarsi con le istituzioni locali. Esiste solamente una montagna di denaro senza fine sulla quale gettarsi con voracità assassina ed una montagna di roccia da sventrare al più presto per garantire la sopravvivenza del bengodi.
Il progetto per la costruzione della Linea ferroviaria Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione si è evidenziato fin da subito come il più scellerato ed economicamente dispendioso dell’intero programma Tav e la nostra storia vuole entrare nel merito delle motivazioni che hanno spinto decine di migliaia di persone ad osteggiarlo con veemenza fin dalla sua nascita. L’intenzione dei progettisti è quella di costruire un tracciato che partendo da Settimo Torinese (periferia nord est di Torino) attraversi buona parte della Valle di Susa per poi sbucare in Francia attraverso un tunnel di 52 km sotto il massiccio dell’Ambin.Tale tracciato accreditato come parte integrante di un fantomatico “Corridoio 5 Lisbona – Kiev” viene definito indispensabile ed irrinunciabile dalla maggior parte degli uomini politici di ogni razza e colore, nonché dalla Confindustria e da tutti i poteri forti che attendono di spartirsi le enormi somme di denaro garantite dall’opera per almeno i prossimi 15 anni.

Le ragioni addotte per suffragare la necessità assoluta del progetto si sono sempre limitate a demagogiche affermazioni secondo le quali la Torino – Lione sarebbe indispensabile al rilancio del Piemonte che senza di essa resterebbe isolato dall’Europa, oppure a proclami privi di fondamento secondo i quali l’opera risulta indispensabile per l’innovazione del sistema dei trasporti italiano e garantirà un enorme ritorno sia dal punto di vista economico che da quello occupazionale. E’ stata anche ventilata, in realtà senza troppa convinzione, la necessità di garantire attraverso l’opera la gestione del supposto futuro incremento dei flussi passeggeri e commerciali, nonché ipotizzato un futuro trasferimento alla rotaia del traffico su gomma tramite le navette in grado di trasportare i Tir, con conseguenze positive in termini d’inquinamento ambientale. Quando le commissioni tecniche, scientifiche e gli esperti hanno iniziato nel corso degli anni ad analizzare il progetto nelle sue varie sfaccettature è però emersa una realtà in profonda distonia con le roboanti dichiarazioni della folta schiera di politici, pennivendoli e mestieranti vari che si sono prodigati e si prodigano nel tentativo di dare alla Torino – Lione una patente di “opera necessaria” che non ha assolutamente ragione di esistere.
Quella di un Piemonte isolato dal resto d’Europa è un’affermazione talmente assurda da meritare di albergare solo nella fantasia di una mente malata. Lungo la sola la Valle di Susa passano infatti attualmente circa il 35% delle merci che valicano le Alpi, troppe veramente per una regione in stato d’isolamento.
La Valle di Susa è una valle alpina larga in media solamente 1,5 km con abbondanza d’insediamenti abitativi ed industriali. Attraverso di essa già oggi passano un’autostrada, due strade statali, una linea ferroviaria passeggeri e merci a doppio binario, un fiume, molteplici strade provinciali, acquedotti, condutture del gas, linee elettriche aeree ed interrate. Dovrebbe essere evidente per chiunque come una realtà naturale già così fortemente violentata non sia assolutamente in grado di sostenere il peso di nuove pesanti infrastrutture, se non al prezzo di conseguenze disastrose sia per il territorio che per la qualità di vita di coloro che lo abitano.

La costruzione della Torino – Lione comporterà nella sola parte italiana l’estrazione dalle gallerie di 16 milioni di metri cubi di smarino (almeno 6 volte il volume della piramide di Cheope) per i quali occorreranno 2.500.000 passaggi di camion solo per stoccare nelle varie discariche i materiali di risulta. I recenti studi d’ingegneria dei trasporti affermano che quando tra una quindicina di anni l’opera sarà terminata solo l’1% dell’attuale traffico su gomma si trasferirà sulla ferrovia. La contropartita di questo deludente risultato sarà pagata in maniera salatissima dai cittadini della Valle e della cintura di Torino, in quanto si calcola che durante questi 15 anni almeno 500 camion circoleranno giorno e notte per il trasporto dei materiali di scavo dai tunnel ai luoghi di stoccaggio, con il conseguente aumento d’inquinanti, polveri e rumore. Oltre ai grossi rischi di natura idrogeologica focalizzati nella bassa valle, ad elevato rischio alluvionale, le cui conseguenze potrebbero ripercuotersi in maniera drammatica anche sulla città di Torino, gli studi hanno messo in evidenza due punti di estrema criticità del progetto Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione.
Il primo riguarda la galleria di 23 km Musinè/Gravio che dovrebbe attraversare un terreno caratterizzato da rocce ricche di amianto. Secondo le analisi commissionate dalla Rete Ferroviaria Italiana ai geologi dell’Università di Siena il volume previsto di materiale estratto contenente amianto dovrebbe essere di almeno 1.150.000 metri cubi. Non risulta sia stato previsto alcun piano di sicurezza volto ad impedire la dispersione delle fibre d’amianto durante le fasi di lavorazione e di stoccaggio. La metà del materiale estratto contenente amianto (paragonabile per volume ad un grattacielo alto 400 metri) è previsto sia stoccata in un sito a cielo aperto nei pressi del comune di Almese, senza nessuna protezione e giocoforza esposto ai forti venti di fhon che spesso soffiano nella valle (mediamente per 40 giorni all’anno) in direzione Torino.
In un dossier curato dal dottor Edoardo Gays, oncologo dell’ospedale San Luigi di Orbassano viene sottolineato come l’amianto, riguardo al quale non esiste per l’uomo una soglia minima di tollerabilità, causa oltre ad altre affezioni il mesotelioma pleurico, un tumore maligno che si manifesta anche dopo 15, 20 anni dall’inalazione delle particelle, esso porta al decesso in media entro 9 mesi dal momento della diagnosi ed ha un tasso di mortalità nell’ordine del 100%. Sempre il dottor Gays nel suo studio esprime grossa preoccupazione per le conseguenze degli scavi e dello stoccaggio dei materiali contenenti amianto sulla salute dei cittadini ed afferma che alla luce di queste condizioni le morti per mesotelioma rischieranno di aumentare di oltre 100 volte su scala regionale.

Il secondo punto critico è costituito dal tunnel di 52 km che dovrà correre sotto il massiccio dell’Ambin, preceduto da una galleria di prospezione lunga oltre 7 km e del diametro di 6 metri.All’interno del massiccio dell’Ambin sono infatti presenti numerosi giacimenti di uranio, come documentato dal CNR fin dal 1965. Per maggior precisione il materiale presente è pechblenda, una forma particolarmente radioattiva. Una parte dello smarino estratto sarà perciò con tutta probabilità carica di radioattività ed estremamente pericolosa sia in fase di scavo che di stoccaggio.
L’uranio si disperde nell’aria e può essere inalato, inoltre contamina le falde acquifere e va ad inquinare i corsi d’acqua che possono essere utilizzati per l’irrigazione. L’uranio se inalato o ingerito provoca contaminazione interna e può essere causa di linfomi e leucemie.Occorre anche sottolineare che la distribuzione delle falde acquifere all’interno del massiccio dell’Ambin è estremamente complessa e le conseguenze degli scavi rischiano di compromettere gravemente il sistema idrografico dell’area, come già avvenuto nel corso degli scavi delle gallerie per la linea Alta Velocità Firenze – Bologna nella zona del Mugello.

Se alla luce delle analisi fin qui esposte il progetto della linea ferroviaria Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione si dimostra in maniera incontrovertibile un’opera altamente pericolosa per la salute e l’incolumità dei cittadini, non solo della Valle di Susa ma anche della cintura torinese e del capoluogo stesso, anche gli studi inerenti all’utilità ed al ritorno economico del tracciato mostrano imbarazzanti incongruenze nel merito delle quali non si può evitare di entrare.
I traffici di lunga distanza sull’asse Lisbona – Kiev, che motiverebbero il concetto di “Corridoio 5” sono ad oggi irrilevanti. Il traffico passeggeri di lunga distanza si muove e si muoverà in aereo, poiché risulta ampiamente dimostrato come le ferrovie ad Alta Velocità non siano assolutamente competitive nelle distanze superiori ai 500 km. I traffici merci di lunga distanza sono estremamente esigui, la velocità non è un requisito fondamentale (basta osservare il successo delle ferrovie statunitensi con velocità commerciali nell’ordine dei 30 km/h.) anzi contribuisce ad aumentare i costi a dismisura, favorendo sull’asse in oggetto l’alternativa marittima.
L’attuale linea ferroviaria Torino – Modane è oggi utilizzata solamente al 38% della sua capacità. Le navette predisposte per il caricamento dei Tir sono state usate solo durante il breve periodo di chiusura del Frejus, altrimenti partono ogni giorno vuote. Gli unici due treni giornalieri del collegamento ferroviario diretto Torino – Lione sono stati soppressi per mancanza di passeggeri. Una scarsità di traffico davvero disarmante per una direttrice così importante da giustificare l’investimento di 21 miliardi di euro (la metà dei quali di competenza italiana) al fine di dotarla di una linea ad Alta Velocità.
Negli anni passati, quando ancora la pesante crisi economica europea non si era manifestata in tutta la sua interezza, il governo aveva affidato ad una società molto quotata, la Setec Economie il compito di valutare i benefici dell’opera. Tale società aveva analizzato i volumi tendenziali di traffico per gli anni a venire, stimando con un ottimismo che alla luce della contrazione odierna del mercato non può che far sorridere, un volume di traffico che avrebbe dovuto attestarsi nel 2015 intorno ai 174 treni/giorno. La linea esistente, una volta effettuati gli interventi di potenziamento previsti, molti dei quali già in corso dovrebbe consentire già nel 2008 una capacità di circa 220 treni/giorno, un valore ampiamente compatibile con qualsiasi ottimistica previsione.

Alla luce di questi dati si stenta veramente a comprendere, se non nell’ottica della spartizione mafiosa dei finanziamenti pubblici, per quale arcana ragione anziché perseguire lo sfruttamento della linea attuale ottimizzandone le potenzialità, s’intenda invece portare a termine un progetto totalmente inutile come quello della linea ferroviaria Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione, finalizzata ad una capacità di trasporto superiore di oltre 5 volte agli attuali livelli di traffico, oltretutto alla luce del fatto che detti livelli anziché in crescita esponenziale come si prevedeva nel passato sono scesi del 9% solamente nell’ultimo anno. Appare inoltre lapalissiano come il costo esorbitante di un’opera di queste dimensioni, stimato in circa 11 miliardi di euro per la sola competenza italiana e passibile (come l’esperienza ci insegna) di ulteriori notevoli incrementi durante i 15 anni di lavori, non potrà assolutamente essere ammortizzato attraverso i ricavi derivanti da un traffico composto da elementi di sola fantasia.
Tale costo ricadrà per forza di cose sulle spalle di tutta la collettività con effetti a dir poco disastrosi.

La storia che ho voluto raccontarvi si è ormai trasformata in pura cronaca di attualità, una cronaca che vede riproporsi la biblica lotta di Davide contro Golia. Da un lato i cittadini della Valle di Susa e tutti gli abitanti dell’area torinese che hanno avuto la sensibilità e la capacità di riuscire a comprendere i termini del problema pur attraverso la disinformazione messa in atto dai grandi media asserviti alle ragioni della politica. Insieme a loro i sindaci dei comuni della Valle, alcuni studiosi, medici ed esperti che si manifestano quali spiriti liberi non aggiogati al carro dei potenti, nonché esigue frange della politica appartenenti ai Verdi ed a Rifondazione Comunista.
Dall’altro le arroganti falangi del potere, i ministri del governo insieme agli onorevoli dell’opposizione, fino ad arrivare al Presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso (donna che per l’occasione è giunta al punto di abiurare ogni parola esperita in tanti anni di militanza ambientalista) ed al sindaco di Torino Sergio Chiamparino.Tutti uniti, coesi, forti di quella protervia che deriva loro dalla consapevolezza di poter gestire l’opinione pubblica attraverso le televisioni, i giornali e gli esperti compiacenti, convinti di potere reprimere ogni forma di protesta con la furia belluina della polizia e la militarizzazione del territorio.

Il primo scontro si è già svolto il 31 ottobre, quando il potere ha usato i manganelli della polizia per bastonare i tanti, tantissimi cittadini, nonché alcuni sindaci che si erano inerpicati sulla montagna sopra Monpantero nel tentativo d’impedire la conquista del primo lembo della loro terra, sul quale sarebbe stata installata la prima trivella a sancire di fatto l’inizio dell’opera.
Il lembo di terra è stato conquistato solo con l’ausilio dell’inganno, in maniera probabilmente illegale ed è ora presidiato dalla polizia. Le trivelle non hanno ancora potuto mettersi in moto ma la Presidente della regione Piemonte Mercedes Bresso ed il sindaco di Torino Sergio Chiamparino si sono già espressi con durezza, affermando che la ferrovia Alta Velocità – Alta Capacità Torino – Lione si farà in ogni caso, poiché si tratta di un progetto irrinunciabile e nessun tipo di protesta riuscirà ad impedirne la realizzazione. In risposta al rifiuto di ogni dialogo che non passi attraverso l’uso dei manganelli da parte delle istituzioni, il 16 novembre tutta la Valle di Susa si è fermata, unita in uno sciopero generale contro l’ennesima violenza perpetrata nei confronti del territorio e dei suoi abitanti.
Almeno 80.000 persone di tutte le età e di tutti i ceti sociali hanno ribadito pacificamente ma con estrema fermezza il proprio no alle trivellazioni e alla militarizzazione della loro terra.Martedì 6 dicembre con il favore delle tenebre, poliziotti e carabinieri in assetto da guerra hanno massacrato a bastonate le 40 persone inoffensive che occupavano il presidio di Venaus, per protesta contro l’apertura di un secondo cantiere.
Giovedì 8 dicembre, sotto alla luce del sole, la gente della Valsusa, come una marea umana si è riversata a Venaus, ha ripreso possesso della propria terra e ricostruito il presidio.La storia ovviamente non finisce qui e come tutte le storie potrà riservare infinite sorprese anche a coloro che si sentono onnipotenti quando tengono in mano il bastone del potere.
I contestatori NO TAV della Valle di Susa potrebbero un giorno di questi apparire al resto d’Italia nella loro veste reale, non uno sparuto gruppo di estremisti ecologisti, no global, luddisti, nemici del progresso, bensì semplicemente tanti cittadini coraggiosi disposti a mettersi in gioco e lottare per difendere i loro diritti, la propria salute e la propria terra. Quel giorno potrebbero diventare tantissimi e poi ancora di più, così tanti da uscire dall’invisibilità nella quale si è cercato per lungo tempo di nasconderli, troppi perché i poliziotti possano bastonarli tutti, ed allora forse inizierà una storia diversa che parlerà di treni costruiti per essere utili alla qualità di vita dell’uomo e non di uomini sacrificati nel nome dei treni e della velocità.

giovedì 3 novembre 2005

Le stelle di David

Marco Cedolin

Giuliano Ferrara, l'erudito direttore del Foglio, fra i maggiori apostoli in Italia della filosofia neocon tanto cara all'amministrazione Bush e ai firmatari del Project for New American Century, è riuscito in un'impresa tanto miracolistica quanto senza precedenti. L'impresa di riunire sotto ad una sola bandiera, quella israeliana del democratico ed illuminato governo Sharon, i leader di quasi tutti i maggiori partiti italiani di governo e di opposizione.
L'apostata Fini Gianfranco al fianco di Piero Fassino che comunista lo è forse stato solo ai tempi della tata, il democristiano Follini accanto all'ex democristiano Rutelli, il leghista Calderoli ed il verde Pecoraro Scanio a condividere il medesimo colore che è anche quello dell'immarcescibile La Malfa, e poi tanti altri, dal barbassore Massimo Cacciari al balioso Vittorio Feltri, dal telegenico Mentana al novello Cagliostro Clemente Mastella e poi Giovanardi, Veltroni, Boselli e ancora altri, tutti uniti come vecchi amici nel carnevalare con tanto di fiaccole e lumini dinanzi all'ambasciata dell'Iran.

“Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”, quanta saggezza sconosciuta ai politici nostrani, alligna nelle parole dell'antico pensiero latino,
Si percepisce come l'impressione di essere tornati indietro nel tempo fino a circa tre anni fa. Allora, quando ai più capitò di errare non vi erano fiaccole e la bandiera nel nome della quale ci si ergeva a paladini dell'ordine mondiale non era quella israeliana, bensì il più classico stendardo a stelle e strisce, identici però a quelli di oggi erano i concetti, i proclami, le requisitorie.
Esisteva un satana, nella persona di Saddam Hussein ed una nazione stipata all'inverosimile di armi di distruzione di massa e pronta ad assalire ferocemente gli stati democratici; l'Iraq.
L'epilogo di quei proclami purtroppo è noto a tutti, l'Iraq è stato annientato militarmente e culturalmente e vive da quasi tre anni nella babele di una guerra civile permanente, resa ancora più cruenta dal permanere dell'occupazione armata. Una nazione tecnologicamente e socialmente progredita è stata costretta ad un regresso di almeno due secoli, sprofondando nella povertà e nella barbarie.
Tutto ciò fu compiuto, come tutti sappiamo, nel nome della sicurezza mondiale per preservare la democrazia da armi di distruzione di massa che non esistevano né erano mai esistite e dalla ferale pericolosità di un paese che in realtà non è mai stato pericoloso per nessuno, né avrebbe potuto esserlo.

Oggi i soliti noti stanno apprestandosi a perseverare e lo fanno senza mostrare in verità molta fantasia.
Esiste nuovamente un satana contro il quale tuonare, nella persona di Mahmoud Ahmadinejad, presidente democraticamente eletto della Repubblica Islamica iraniana, che ha pubblicamente contestato l'esistenza dello stato d'Israele ed esiste nuovamente una nazione, l'Iran, che si appresta ad assalire Israele e le democrazie occidentali con l'ausilio di fantomatici letali ordigni nucleari in fase di costruzione.
In realtà le parole di Ahmadinejad, senza dubbio infelici, non dovrebbero stupire più di tanto Ariel Sharon ed il governo israeliano che fino a ieri non con le parole bensì con i fatti hanno cancellato dalla cartina geografica lo stato palestinese, con la tacita collaborazione di tutti i fiaccolanti che si dedicheranno alle luminarie di questa sera.
Ahmadinejad occorre ricordarlo è presidente di un paese che nei 25 anni trascorsi dalla cacciata dello Scià si è sempre dimostrato uno stato pacifico che non ha mai creato alcun problema di ordine internazionale. Ha combattuto un'unica guerra (non di aggressione) contro l'Iraq al tempo armato e finanziato dagli Stati Uniti e dall'occidente.
L'Iran è un paese che mai e poi mai potrebbe creare problemi di aggressione militare ad Israele che è uno degli stati meglio armati, anche dal punto di vista nucleare, al mondo.

Nonostante ciò gli Stati Uniti lo hanno sempre sottoposto ad un severo isolamento economico e commerciale, arrivando perfino a minacciare misure analoghe nei confronti di qualunque paese commerciasse con esso (legge Helms Burton del 1996).
Nonostante ciò il congresso statunitense ha stanziato negli anni milioni di dollari per finanziare attraverso la CIA i gruppi terroristici “Muhjiaeddin e Khalq” nell'intento di destabilizzare l'unità del paese e riportare al governo i monarchici raccolti intorno a Reza Palhavi, figlio di quello Scià che si è macchiato di ogni genere di crimine contro l'umanità.
Nonostante ciò Stati Uniti ed Unione Europea oltre ovviamente ad Israele hanno fatto e stanno facendo pressioni fortissime sull'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (facente capo all'ONU) affinché dichiari fuorilegge il programma nucleare iraniano finalizzato esclusivamente a scopi di produzione energetica, come le numerose ispezioni hanno negli anni confermato.La mia unica speranza è che fra qualche mese buona parte di coloro che si apprestano a manifestare con tanto di fiaccole stasera, non siano costretti a ritrovarsi (con la poca coerenza che da sempre li contraddistingue) a sfilare per le strade dopo avere rispolverato in soffitta l'ormai dimenticata bandiera della pace, quella con le tinte dell'arcobaleno ricordate?

mercoledì 26 ottobre 2005

Fra demonio e santità

Marco Cedolin

Quante schegge di realtà si abbarbicano come edera ingiallita sul tendone di quel circo equestre che siamo soliti definire informazione.
Quanti mostri, miti, demoni e santi, nascono dalla fantasia di pennivendoli imbolsiti e tele urlatori che creano opinione, nascono per poi scolorare come foglie secche che frusciano nel vento tiepido di una giornata di autunno.
La storia recente di Sergio Cofferati, il cinese, come amavano chiamarlo con simpatia i suoi tanti estimatori, è un fulgido esempio di quanto effimeri siano i messaggi attraverso i quali i media forgiano le nostre opinioni ed il nostro pensiero.
Il quotidiano Liberazione ha dedicato a Cofferati la propria prima pagina, accusandolo di avere ordinato alla polizia di bastonare un centinaio di studenti i quali, capeggiati dal deputato dei Verdi Paolo Cento e da un dirigente locale di Rifondazione Comunista, cercavano di entrare con la forza nel municipio di Bologna al grido di "Cofferati fascista."

Sergio Cofferati, proprio lui, il paladino dell'articolo 18, l'unico uomo che nell'ultimo decennio sia riuscito ad infiammare gli animi dei lavoratori, a riempire di folla piazze e palazzetti dello sport, a dare ancora a molti italiani l'illusione di potere lottare per i propri diritti, viene additato dai giovani di sinistra come fascista e dalla stampa come mandante delle cariche dei celerini, quasi si trattasse di un novello Scelba.

Dove alligna giunti a questo punto la realtà e quali mezzi abbiamo per interpretarla e farla propria?
Chi è in realtà Sergio Cofferati? Il cinese che si profondeva nelle crociate per i diritti dei lavoratori e solo un paio di anni fa si poteva definire senza tema di smentita l'uomo più popolare ed amato della sinistra, tanto da farne un papabile leader della coalizione, oppure un imborghesito reazionario, amico dei manganelli e nemico degli studenti universitari al punto da fare calare violentemente il randello sulle loro schiene?

Probabilmente né l'uno né l'altro, forse semplicemente un uomo in gamba, ricco di carisma ma povero di coerenza e pertanto incline a lasciarsi manovrare.
Una figura che la sinistra ha usato sfruttandone la crescente popolarità, quando ad inizio legislatura ancora fingeva di combattere il governo Berlusconi sui temi del lavoro e dell'occupazione e forse carezzava l'idea di proporre un uomo nuovo a guidare la coalizione per le prossime elezioni.
Una figura poi divenuta scomoda ed ingombrante allorquando il centrosinistra ha deciso di riesumare la salma di Romano Prodi, ormai da tempo mummificata a Strasburgo.
Quale soluzione migliore a quel punto che parcheggiare il cinese in quel di Bologna, attendendo che la diminuita esposizione mediatica ne intaccasse la popolarità.
Presiedere la gestione di una città, con tutte le sue problematiche e contraddizioni è certo più difficile e meno remunerativo in termini di popolarità che non guidare un sindacato che si fingeva impegnato in una battaglia epocale come quella sull'articolo 18.
Ho scritto fingeva poiché in realtà il sindacato capeggiato da Cofferati in quegli anni finse soltanto di porsi a baluardo dei diritti dei lavoratori, preservando il famoso articolo 18 dall'attacco peraltro velleitario ed improbabile del governo Berlusconi.
Mentre quegli stessi diritti venivano annientati in profondità attraverso la riforma Biagi, nei confronti della quale il sindacato si guardò bene dal manifestare la benché minima opposizione.

Se è vero che Cofferati in realtà fece ben poco per preservare i diritti di coloro che lo osannavano quando era leader della CGIL, altrettanto vero è che non mi pare stia operando a Bologna nella veste di squadrista e di picchiatore. Ma forse l'essere diventato demonio senza colpa è solo la conseguenza di essere stato santo senza merito, godiamoci questa salomonica riflessione, nell'attesa che i media forgino un nuovo mito, ho la netta sensazione che l'amatissima e Celentanissima RockPolitik ne abbia già messi in cantiere almeno un paio.

domenica 23 ottobre 2005

Incidenti di percorso

Marco Cedolin

Doveva trattarsi di una serata di gala per i candidati dell'Unione di centrosinistra alle elezioni primarie di domenica, ospiti in prima serata del programma Alice nel paese delle meraviglie, condotto su Rai due dall'inappuntabile e pacata Anna La Rosa.
Si trattava di un'occasione per confrontarsi, esponendo ciascuno la propria bozza di programma politico, in un'ottica costruttiva come si conviene fra alleati uniti e coesi.

Qualcosa invece non ha funzionato, anzi ad essere precisi a funzionare sono state davvero pochissime cose ed il telespettatore si è trovato ad osservare un penoso siparietto, condito da tensione, insulti e palpabili imbarazzi, quasi si trovasse su blob.
Romano Prodi e Fausto Bertinotti, i due candidati più accreditati al successo nelle votazioni di domenica, avevano in verità preventivamente defezionato il programma, lasciando il proscenio ai cinque candidati minori, in ordine sparso Pecoraro Scanio presidente dei Verdi, Antonio Di Pietro leader dell'Italia dei valori, Ivan Scalfarotto candidato indipendente, Clemente Mastella leader dell'Udeur e Simona Panzino rappresentante del movimento dei "senza volto".

Il fattaccio è accaduto durante un collegamento con il vice ministro Adolfo Urso che parlava da Montecitorio. La Panzino che gli aveva appena rubato la parola e stava interloquendo sul problema degli sfratti agli anziani si è improvvisamente alzata in piedi come tarantolata indicando in direzione del pubblico dove era in atto una sorta di collutazione fra un collaboratore della stessa Panzino ed alcuni uomini del personale di studio.
Nell'evidenza che il caos era prossimo a degenerare il contatto video veniva tempestivamente sospeso ed i telespettatori si ritrovavano dinanzi prima ad una tanto imprevista quanto non richiesta pausa pubblicitaria, poi ad alcuni minuti di filmati di repertorio.

Stemperata almeno apparentemente la tensione il collegamento riprendeva ma nello studio mancava la presenza di Clemente Mastella il quale aveva abbandonato la trasmissione, subordinando la propria permanenza alla richiesta che fosse cacciata dalla trasmissione la candidata Panzino.
La conduttrice Anna La Rosa, visibilmente tesa ed imbarazzata si profondeva in scuse sia nei confronti dei telespettatori che degli ospiti, ma il clima di tensione continuava a restare l'unico vero protagonista fino alla fine della trasmissione.

Le bozze di programma illustrate dai candidati si manifestavano per molti versi antitetiche l'una rispetto all'altra ed anche riguardo alla priorità da dare ai vari problemi del paese si denotava un'evidente distonia di vedute, quasi ci si trovasse di fronte non a membri di una stessa coalizione, bensì a diverse fazioni politicamente contrapposte fra loro.L'unico argomento riguardo al quale si riscontrava perfetta consonanza era l'appello, proferito da tutti i candidati in maniera quasi ossessiva, ad andare a votare numerosi, un appello dal quale traspariva chiaramente più la paura di una defezione di massa dei cittadini dalle urne, piuttosto che la convinzione nelle proprie parole.

sabato 22 ottobre 2005

Poco rock niente politik

Marco Cedolin

L’evento televisivo era stato preparato da tempo, curando con precisione certosina tutti i particolari che ne consentissero un facile successo sia in termini di ascolto (di share, come amano definirlo i tele acculturati doc) sia in termini di risonanza mediatica.
La scelta di Adriano Celentano, l’unico uomo in grado di scalare i dati Auditel con il solo ausilio dei propri silenzi, come conduttore del programma non avrebbe potuto essere più azzeccata.
Così come intrigante risultava il nome della trasmissione, quel “RockPolitik” che nell’immaginario collettivo prometteva di fondere i ritmi forsennati della musica con l’andamento lento tipico del mondo politico.
Ad aumentare l’aspettativa, già creata con notevole dispendio di energia dall’ampio spazio dedicato al futuro evento da giornali e TV, si aggiungeva l’annuncio del ritorno sul piccolo schermo di quel Michele Santoro che veste ormai da tempo l’abito dell’epurato numero uno della televisione pubblica.

Lo spettacolo condotto dal molleggiato è invece riuscito a disattendere qualsiasi tipo di aspettativa una persona si fosse creata nella propria mente.
Celentano ha portato avanti per un paio d’ore una sorta di commistione fra i tipici varietà musicali del sabato sera ed una fantomatica riconquista della libertà d’informazione, il tutto condito da una ridda esagerata di luoghi comuni, facile demagogia e retorica, non dimenticando di strizzare l’occhio alla chiesa cattolica.
L’ascoltatore, che veniva invitato da una scritta in sovrimpressione all’inizio del programma ad ascoltare lo stesso a tutto volume, si è reso conto ben presto suo malgrado che l’unica vera protagonista del palcoscenico rischiava di essere la noia.
La trasmissione si è trascinata sonnolenta fra canzonette, monologhi stucchevoli, statistiche riguardanti la libertà d’espressione ormai note da tempo spacciate come rivelazioni ed i consueti silenzi carichi di filosofica riflessione.
Celentano ha speso alcune parole criticando la presenza degli ecomostri che deturpano la bellezza del paesaggio italiano, ma non ha fatto menzione del disastro economico che deturpa in maniera ben peggiore la vita di tanti italiani.
Ha attaccato gli immobiliaristi che la trasmissione Report aveva già denunciato, oltretutto fornendo in merito ampie documentazioni, quasi una settimana fa.
All’acme del proprio sdegno nei confronti del sistema ci ha reso partecipi dell’incredibile rivelazione secondo la quale “tutti hanno paura delle parole ed oggi si possono dire solo cose che non danno fastidio a nessuno.”
L’entrata in scena di Michele Santoro, evento epico che in ossequio alla fantasia del molleggiato sarebbe valso a riportare l’Italia al primo posto nella classifica della libertà d’espressione (quasi Santoro anziché deputato al parlamento europeo fosse rimasto fino ad oggi rinchiuso in qualche carcere di massima sicurezza) non ha aggiunto assolutamente pepe né ritmo alla trasmissione.
L’indimenticato protagonista di Sciuscià si è prodotto anch’egli in un breve soliloquio ma non è riuscito ad esperire altro che poche parole intrise di buoni sentimenti e nulla più.
“Viva la fratellanza, viva l’eguaglianza, viva la cultura, viva la libertà.”
Impossibile ovviamente non condividere queste parole, ma forse il telespettatore aveva l’ambizione che qualcuno provasse a spiegargli per quale arcana ragione tali nobili parole continuano a restare un mero esercizio sillabico anziché tradursi in realtà.

Il sistema, dopo avere dato prova attraverso il controllo sistematico dei media, di riuscire a plasmare il mondo reale a proprio uso e consumo, sta diventando sempre più bravo anche nell’artificio di creare falsa contro informazione pilotata che dimostri la presenza di quella libertà di pensiero che si è invece ormai persa da tempo.L’ordalia d’indignazione ed esternazioni critiche che tutto il centro destra non ha mancato fin da subito d’indirizzare nei confronti di Celentano e della trasmissione sono solo irrinunciabili elementi di coreografia che alimentano l’illusione di libertà.

martedì 18 gennaio 2005

Roma ladrona o ladroni a Roma?

Marco Cedolin

Ormai ciascuno di noi è perfettamente conscio di come le idee, i programmi, la volontà di spendersi in qualcosa di costruttivo, siano concetti completamente sconosciuti nell'intimità dei carrozzoni di quel circo equestre che è la politica italiana.

Lo si può intuire senza alcuna fatica già solo osservando lo sgomitare scomposto dei mestieranti che calcano palcoscenici etichettati ora di destra, ora di sinistra, solo per tentare di gettare un pò di fumo negli occhi di quegli elettori che il ministro Sirchia, con falso paternalismo, proprio dal fumo tenta di preservare.
Lo si evince con chiarezza dal rapporto simbiotico che gli uomini politici hanno instaurato con la propria poltrona-carapace, dalla quale si guardano bene dall' allontanarsi, fosse anche per un secondo.
Lo si percepisce nell'assoluta inanità di pensiero che traspare dalle infinite diatribe, urlate con falsa enfasi e toni fintamente scomposti, discussioni basate sul nulla, che si trascinano dalle aule del parlamento, fino agli schermi TV, con lo scopo precipuo di approdare a quel nulla che per il mestierante della politica significa mantenimento della propria condizione di uomo ricco e privilegiato.
Nello scorrere l'elenco dei nuovi assunti presso il Parlamento Europeo, con la qualifica di assistenti accreditati degli onorevoli Matteo Salvini e Francesco Speroni, ci si imbatte non senza sorpresa nei nomi di Franco Bossi e Riccardo Bossi, rispettivamente fratello e figlio primogenito del leader del Carroccio.

Naturalmente vi starete domandando perchè io mai abbia parlato di sorpresa, dal momento che il nepotismo e la regola del do ut des sono in Italia le colonne basilari sopra le quali è costruito il mondo del lavoro e non esiste alcuna ragione logica per la quale i politici (anche coloro che hanno costruito la propria fortuna attraverso la maschera di uomini onesti ed integerrimi) dovrebbero rappresentare un'eccezione.

La sorpresa però c'è, ve lo garantisco, ed alligna in due particolari che si fatica oltremisura a considerare di secondaria importanza.
In primo luogo lo stipendio che percepiranno questi due membri della famiglia del Senatur, pari a 12.750 euro al mese (oltre 24 milioni delle vecchie lire) ai quali si sommeranno vari ed eventuali bonus, una retribuzione che certo pare poco allineata non solo a quelle degli operai di Melfi o degli autoferrotranvieri, ma anche a quelle di gran parte degli italiani, siano essi lavoratori dipendenti o autonomi.
Una retribuzione talmente elevata da lasciare presupporre i soggetti in questione siano in possesso di capacità decisamente superiori alla media, onde meritare guadagni così principeschi.

E qui arriviamo al secondo particolare, in quanto Franco Bossi, il primo assistente "accreditato" si è fino ad oggi prodigato nel mandare avanti un negozio di autoricambi a Fagnano Olona e per quanto fervidi di fantasia si possa essere resta davvero difficile riuscire a comprendere attraverso quale arcana alchimia tale esperienza nel campo dei ricambi, dei gadget per auto e magari delle autoradio, possa accreditare lo stesso ad occuparsi delle problematiche politiche del sistema europeo.

Di Riccardo Bossi, aitante ragazzo di 23 anni si conosce solo il fatto che è studente fuori corso all'università ed ama le auto di grossa cilindrata, un po’ poco, credo, per accreditarlo presso il Parlamento Europeo, con la retribuzione di cui parlavamo sopra, che se certo gli sarà molto utile nell'acquisto delle auto veloci, di contralto finisce per svilire gli sforzi di tutte quei giovani che studiano e lavorano duro tutto il giorno, senza che riesca loro di monetizzare adeguatamente le proprie capacità.

In conclusione la morale, se ci può essere una morale andando a spulciare fra le bassezze del genere umano, resta sempre la medesima.
E' molto comodo ma anche estremamente misero, ergersi a personaggio e conquistare il favore della gente urlando “Roma Ladrona!!” quando ci si ritrova fuori dal sistema, per poi sguazzare compiaciuti in quello stesso sistema non appena si ha la possibilità di farne parte e godere dei privilegi che ne conseguono.
Qui finisce la sorpresa, ci siamo ormai accorti da tempo che la coerenza non fa più parte dei nostri giorni. Ex terroristi che scrivono best sellers con l'aiuto delle case editrici di un regime che volevano abbattere, spiriti liberi che non appena entrati nel "giro che conta" trasmutano in spiriti ricchi e relegano la libertà nel chip di una carta di credito....come cambiare maschere a seconda dell'occasione, perchè al di sotto delle maschere esiste sempre solo e solamente il nulla.