domenica 29 giugno 2003

I forzati della democrazia

Marco Cedolin

E' difficile riuscire a capire cosa stia accadendo nelle città dell'Iraq "liberato".
Il grande circo dell'informazione è migrato alla fine della guerra (quella dei generali) ed ora le notizie filtrano in maniera ancora più frammentaria e pilotata di quanto non accadesse prima.

L'Iraq nel 1991, alla vigilia della prima guerra del golfo era un paese di 18 milioni di abitanti con una società altamente urbanizzata e meccanizzata paragonabile a molti degli stati europei, gli investimenti nella sanità e nella scuola erano in linea con gli standard occidentali.
Oggi l'Iraq non è più uno stato, due guerre, 12 anni di embargo e l'occupazione lo hanno ridotto a una Babilonia di morte senza identità né senso.
18 milioni di persone sono state ricacciate ad un'era preindustriale e sono giornalmente costrette a convivere con una realtà che ha l'acre sapore dell'inferno Dantesco.

La “democrazia” ha il triste volto degli eserciti d'occupazione, dei carri armati, delle macerie, dei saccheggi.
A Falluja gli iracheni che quasi giornalmente compiono azioni di guerriglia contro l'invasore vengono definiti “sostenitori di Saddam”, così come tutti coloro che l'esasperazione sta portando a combattere gli americani attraverso le imboscate che diventano sempre più frequenti.
La “resistenza” contro un invasore sprezzante ed altero che calpesta gli usi e costumi di un popolo, dopo averlo umiliato e ridotto alla fame non ha nulla a che fare col sostenere Saddam.

Nell'Iraq della “democrazia” non esiste più un governo né un ordine costituito, democraticamente comandano i fucili, la forza, la prevaricazione.
Gli Stati Uniti e gli altri eserciti in armi (compresi i valorosi italiani dell'operazione Antica Babilonia) badano solamente al controllo dello scippo petrolifero, incuranti dell'anarchia che democraticamente regna attorno a loro.
L'amministrazione americana non ha alcuna fretta di costruire il proprio governo fantoccio, in quanto questo significherebbe dovere a poco a poco abbandonare militarmente l'area.
Non ha alcuna fretta d'iniziare la ricostruzione, propagandata come un regalo al popolo iracheno liberato, ma che in effetti riguarderà solo le infrastrutture in qualche modo utili allo sfruttamento economico dell'Iraq.

Quanto tempo necessiterà alla gente d'Iraq per poter tornare al XXI secolo?
Per quanto ancora i discendenti di una fra le più gloriose civiltà dell'antichità saranno costretti a mendicare gli aiuti umanitari? Fino a quando i “forzati” di una democrazia che non avevano chiesto dovranno convivere con la barbarie dell'occupazione militare?

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