Marco Cedolin
Per molti di noi potrebbe essere una sorpresa, ma il settore della moda
così ricco di fascino e così colorato, oltre a brillare per
l’istrionismo degli stilisti e per la sua capacità di farci sognare,
risulta essere fra i più inquinanti al mondo, secondo solamente a quello del petrolio e del gas.
Lo ha reso noto, sciorinando dati assai preoccupanti, la Commissione
Economica per l’Europa delle Nazioni Unite che ha rivelato come
l’industria tessile nel suo complesso sia responsabile del 20% dello
spreco globale dell’acqua, del 10% delle emissioni di anidride carbonica
arrivando a produrre una quantità maggiore di gas serra rispetto al
trasporto aereo e navale, del 24% dell’uso di insetticidi e dell’11% di
quello dei pesticidi. Come se non bastasse l’inquinamento determinato
dall’industria dell’abbigliamento non si limita alla produzione e al
trattamento dei capi, dal momento che i vestiti dismessi a un ritmo
sempre più sostenuto (la loro durata media si è dimezzata negli ultimi
15 anni) finiscono nell’85% dei casi in discarica e solamente l’1% di
essi viene riciclato.....
L’industria della moda vale globalmente 1,3 trilioni di dollari
e impiega 300 milioni di persone, una consistente parte delle quali nei
Paesi in via di sviluppo dove lavorano in condizioni disumane
percependo salari bassissimi.
Alla
base del problema c’è il cambiamento radicale del nostro rapporto con i
capi di vestiario che acquistiamo e indossiamo, intervenuto negli
ultimi decenni e determinato da una serie di ragioni che hanno
condizionato le nostre scelte e le nostre abitudini.
Un tempo i capi di abbigliamento costavano molto più di quanto non
accada oggi, venivano creati prevalentemente usando fibre naturali,
prodotti nello stesso Paese in cui venivano venduti e duravano nel
tempo. Nonostante esistesse come, e forse più di oggi, lo stimolo della
“moda”, i nostri guardaroba contenevano pochi abiti, tutti di qualità
e destinati a venire utilizzati per molti anni, fino a quando non si
fossero sgualciti, consunti dal tempo e dall’uso. Molto spesso una volta
diventati brutti da indossare assurgevano a nuova vita sotto forma di
stracci o indumenti da lavoro.
Volendo semplificare, pur a fronte di una spesa media pro capite
superiore a quella attuale acquistavamo un numero molto più ristretto di
capi che però erano di qualità e duravano nel tempo, prima di venire in
larga parte riciclati da noi stessi e solo raramente affidati alla
discarica.
Oggi i capi di abbigliamento costano (relativamente) pochissimo, sono forgiati all’estero in Paesi dove il costo della manodopera è molto basso, in larga parte con tessuti sintetici,
hanno una scarsa qualità, risultano molto spesso contaminati da
sostanze tossiche che scatenano allergie e dermatiti della pelle e
generalmente durano una stagione o poco più. Nonostante i nostri
guardaroba si siano allargati a dismisura, la vita dei vestiti diventa
sempre più breve e molto spesso prendono la via della discarica prima
ancora di avere conosciuto una lavanderia, poiché portarli a lavare
costerebbe quasi quanto li si è pagati, facendo sì che risulti più
conveniente comprarne di nuovi. Acquistiamo tantissimi abiti di basso costo,
che usiamo per un periodo di tempo brevissimo (quasi la metà viene
gettata via entro il primo anno dall’acquisto), prima che si trasformino
in rifiuti da smaltire in discarica o negli inceneritori.
L’avvento del “fast fashion”
a partire dalla fine degli anni ‘90 ha aumentato in modo esponenziale
la proposta di nuove collezioni, facendo sì che le canoniche
“Primavera/Estate” e “Autunno/Inverno” si siano oggi trasformate in
oltre 50 collezioni nel corso dell’anno, favorendo un acquisto smodato
di capi di abbigliamento ormai completamente disancorato dalla reale
necessità. La crescita economica dei Paesi emergenti, valutata con gli
attuali modelli di consumo, indica che nel 2050 i capi prodotti a
livello mondiale potrebbero raggiungere l’insostenibile peso di 175
milioni di tonnellate.
A determinare questo cambiamento, apparentemente indolore per i
consumatori ma devastante per l’ambiente, sono stati i mutamenti delle
politiche industriali condizionate dalla globalizzazione dei mercati e
il conseguente modificarsi dei costumi che ci hanno resi sempre più
accumulatori compulsivi di merce scadente che non badano alla qualità ma solamente alla vastità del proprio guardaroba.
Sarebbe superfluo sottolineare come l’impatto ambientale del settore
tessile sia determinato dalla quantità dei capi prodotti, dalle risorse
utilizzate per crearli, da quelle usate per movimentarli e in ultimo
dalle conseguenze del loro smaltimento. Se si producono molti più capi,
aventi un ciclo di utilizzo brevissimo e provenienti da
migliaia di chilometri di distanza, inevitabilmente si inquinerà
maggiormente e si consumeranno molte più risorse, proprio come sta
accadendo oggi. Secondo una ricerca realizzata da Greenpeace Germania la
produzione di abiti è raddoppiata dal 2000 al 2014. Il consumatore
medio acquista il 60% in più di capi ogni anno e la loro durata si è
dimezzata rispetto a 15 anni fa.
Sommando lavorazione e tintura, prima di giungere su uno scaffale un solo paio di jeans può arrivare a consumare 11mila litri d’acqua.
La produzione delle fibre sintetiche
(le più comuni e utilizzate sono nylon e poliestere) richiede l’uso di
grandi quantità di petrolio e causa l’emissione nell’aria di composti
organici volatili, particolati sospesi e acidi gassosi come cloruro di
idrogeno, in grado di causare svariati problemi respiratori.
L’inquinamento dovuto alle fibre sintetiche non interessa solamente
l’aria, poiché i composti organici volatili, solventi e altri
sottoprodotti derivati dalla produzione di queste fibre inquinano le
acque che fuoriescono dalle industrie e le falde acquifere circostanti.
Le fibre sintetiche continuano ad avere un impatto negativo anche dopo
essere state prodotte, sia quando vengono a contatto con il nostro
corpo, sia quando durante i lavaggi liberano microplastiche dannose per
l’ambiente.
D’altra parte, il cotone utilizzato
nell’industria tessile viaggia in media per 12mila chilometri nel suo
passaggio dal campo di raccolta fino al negozio di abbigliamento in cui
viene venduto il prodotto finito, consumando enormi quantità di
combustibili fossili.
Una situazione chiaramente insostenibile che richiede un cambio di paradigma immediato.
In primo luogo è necessario decolonizzare il nostro immaginario dal mito dello shopping compulsivo,
abbandonare a livello commerciale la pratica del fast fashion e
ricollocare l’industria dell’abbigliamento all’interno di binari che
abbiano un senso logico, preservando naturalmente i margini di profitto e
le potenzialità occupazionali, ma riducendo al tempo stesso
drasticamente il volume dei capi prodotti e aumentando di contralto il
periodo di utilizzo degli stessi.
Poggiando su queste basi sarà possibile tornare a produrre e vendere
capi di qualità che, pur nell’alveo di un settore come quello della moda
dove si vendono “emozioni” prima ancora che vestiti, possano durare nel
tempo. Sarà necessario limitare al minimo la movimentazione
schizofrenica dei prodotti riportando “a casa” le produzioni
delocalizzate nei Paesi a basso costo di manodopera e porre la massima
attenzione nella sostenibilità ambientale dei tessuti utilizzati e dell’intera filiera,
dalla scelta della materia prima alla tintoria, al finissaggio, per
terminare con le possibilità di riciclo degli abiti dismessi.
Gli esempi positivi a livello industriale sicuramente non mancano, ma
non esiste ancora una politica globale del settore che si muova in
questo senso.
Le nuove tecnologie di stampa digitale
per i tessuti, applicate anche da aziende leader come la Miroglio
Tessile, permettono un 50% di risparmio in termini di consumo di acqua
ed inchiostro.
C&A, azienda leader nel “fashion retail” con oltre 1.900 negozi
in 21 Paesi, progetta e realizza capi nel rispetto di persone, animali e
ambiente. La sua linea di moda viene prodotta da persone che lavorano
con dignità in ambienti sicuri. Oltre il 65% del proprio cotone è
certificato come biologico o “better cotton”, le fibre di cellulosa
artificiale provengono al 100% da foreste gestite eticamente e ha
introdotto prodotti in nylon riciclato. Con l’hashtag #WearTheChange evidenzia i prodotti più sostenibili, tra cui quelli “cradle to cradle”, realizzati con materiali che si autorigenerano.
Gary Cass, ricercatore dell’Università di Perth ha iniziato a
sperimentare la produzione di tessuti dai residui di lavorazione di vino
e birra, ai quali nel tempo ha aggiunto il cocco e un mix di cellulosa e
acetobacter arrivando a ottenere una fibra simile al rayon. Altri
ricercatori sono riusciti ad ottenere seta artificiale utilizzando
zucchero, acqua e lievito geneticamente modificato. Altri ancora a
produrre fibre dalle proteine del latte o dagli scarti degli agrumi.
La
parte del leone fra i tessuti ecosostenibili del futuro appartiene però
ad una pianta dal grande passato come la canapa che non
necessita di pesticidi, diserbanti e fertilizzanti, poiché cresce
rapidamente e attira pochi parassiti ed è in grado di produrre il 250%
in più di fibre tessili rispetto al cotone ed il 600% in più rispetto al
lino a parità di terreno utilizzato. I tessuti in canapa risultano
particolarmente resistenti, sono ipoallergenici e non irritano la pelle,
resistono alla muffa e ben si prestano a essere miscelati con altre
fibre.
Tornare a produrre localmente, utilizzando tessuti naturali o tessuti
artificiali ecosostenibili e ripensare radicalmente in ottica di
rispetto ecologico l’intera filiera di produzione e commercializzazione
dei capi sicuramente avrà un costo economico non indifferente. Il prezzo
dei capi tornerà ad essere quello di mezzo secolo fa rendendo
impossibile cambiare la propria mise a ritmo forsennato così come
avviene oggi. Ma il segreto forse è proprio qui, in fondo stiamo
parlando di moda e di suggestioni e se vestire ecologico
diventerà “di moda” la strada verso la sostenibilità ambientale
diventerà molto meno ripida e sconnessa di quanto oggi la si possa
immaginare.
Fonte: DolceVita online
Nessun commento:
Posta un commento