Marco Cedolin
Solamente in Veneto, nel territorio compreso fra le province di Vicenza, Verona e Padova, almeno 350 mila persone
che vivono in un territorio di 180 chilometri quadrati risultano essere
contaminate dai Pfas presenti nelle acque di falda trasferitisi
all’interno della catena alimentare e 90 mila di esse necessitano di
essere sottoposte a controlli clinici periodici. Secondo i risultati di
una ricerca condotta dall’amministrazione della regione Veneto a partire
dal 2016 e condotta su un campione di 25 mila persone di età compresa
fra i 14 ed i 65 anni residenti nelle aree maggiormente contaminate, ben
il 65% del campione ha mostrato nel sangue la presenza di valori di
Pfas superiori a quelli ritenuti limite, in alcuni casi anche di decine
di volte....
I Pfas, o acidi perfluoroacrilici, sono una famiglia
di composti chimici usati prevalentemente in campo industriale in virtù
della propria particolare struttura chimica che conferisce loro una
eccezionale stabilità termica e una grande resistenza ai principali
processi naturali di degradazione. A partire dagli anni 50 sono stati
usati nella filiera della concia del pellame, nella produzione di carta e cartone per uso alimentare, nel trattamento dei tappeti, nel rivestimento delle padelle antiaderenti, nella produzione di abbigliamento tecnico e in molti altri campi ancora.
La loro persistenza all’interno dell’ambiente può variare a seconda
della classe di prodotto da alcune settimane fino ad oltre 5 anni. I
Pfas, qualora non smaltiti correttamente penetrano con facilità
all’interno delle falde acquifere, contaminando i terreni agricoli e gli
alimenti in essi prodotti. Ad alte concentrazioni risultano altamente tossici
non solamente per l’uomo ma per tutti gli organismi viventi, e
accumulandosi all’interno del sangue nel corso degli anni senza essere
smaltibili dall’organismo possono creare gravi danni anche qualora la
contaminazione sia relativamente bassa.
L’esposizione ai Pfas provoca mutazioni ormonali legate alla
contaminazione che aumentano il rischio di malattie tiroidee, tumore ai
reni e ai testicoli (+30%), cardiopatia ischemica (+21%), morbo di
Alzheimer (+14%) e malattie correlate al diabete (+25%). Inoltre i Pfas
si legano al recettore per il testosterone, riducendone di oltre il 40%
l’attività e la presenza di questi veleni è stata riscontrata
all’interno del cordone ombelicale e della placenta delle donne esposte,
il che induce a supporre che essi abbiano un ruolo sia nell’incremento
delle patologie andrologiche, in primis la sterilità, sia nei problemi
di sviluppo intervenuti nei neonati e nei bambini. Recenti studi
concernenti l’impatto di tali inquinanti durante il periodo della
gravidanza hanno messo in evidenza un aumento del 20% dei casi di
preeclampsia, del 52% di diabete gestazionale e del 30% di nascite
premature, dimostrando inequivocabilmente come nel corso della fase
gestazionale tali veleni si trasferiscano dalla madre al feto.
Oltre
alla succitata area del Veneto, dove il fenomeno è emerso in tutta la
sua tragicità a partire dal 2013, molte altre zone italiane risultano
essere inquinate dai Pfas in maniera preoccupante. Dal territorio del
comune di Spinetta Marengo in provincia di Alessandria a quello della zona conciaria di Santa Croce sull’Arno in provincia di Pisa,
dai bacini dei fiumi Lambro e Olona in Lombardia fino all’area tessile
di Prato in Toscana, per finire con il Polo conciario campano che
scarica i propri rifiuti tossici nel fiume Sarno.
Ma tornando al Veneto, dove il problema ha manifestato la propria
gravità ormai da molti anni, cosa è stato fatto concretamente per
arginarlo e per ridurre il rischio sanitario nei soggetti contaminati?
In verità piuttosto poco. L’azienda Miteni di Trissino, ritenuta la
maggiore responsabile del disastro, ha chiuso i battenti dichiarando
fallimento, 13 manager sono stati rinviati a giudizio ed è ancora in
discussione il procedimento di bonifica dell’intera area aziendale. La
falda inquinata è enorme e interessa un territorio vastissimo, facendo
sì che una seria operazione di bonifica della stessa richieda dei tempi enormi e dei costi economici elevatissimi che nessun soggetto sembra disposto ad accollarsi.
Sul fronte sanitario oltre al monitoraggio periodico dello stato di
salute delle persone contaminate (o meglio di quelle di cui si è a
conoscenza) non si è fatto molto altro. Si è tentato con la
plasmaferesi, ma l’esperimento è stato abortito a causa delle divergenze
mediche fra la Regione ed il Ministero della salute, si sta valutando
l’uso di farmaci specifici che abbiano le potenzialità di abbattere i
Pfas nel sangue, ma siamo ancora allo stadio delle supposizioni, mentre
concretamente i soggetti contaminati sono a tutt’oggi ancora abbandonati
a sé stessi.
Come sempre accade nella nostra società basata sulla crescita e sullo sviluppo, quando si tratta d’inquinamento industriale, torna a riproporsi il canonico dualismo fra lavoro e salute.
In Veneto come a Taranto, come a Monfalcone, a Casale Monferrato, a
Marghera o nelle centinaia di siti contaminati presenti nel nostro Paese
la domanda rimane sempre la stessa: ha davvero un senso morire di
lavoro o potrebbe essere possibile lavorare e sostentarsi economicamente
nel rispetto della nostra salute e di quella di coloro che ci
circondano?
Fonte: DolceVita online
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