venerdì 3 aprile 2020

Acqua contaminata in Veneto: uno scandalo di cui non si parla abbastanza

Marco Cedolin

Solamente in Veneto, nel territorio compreso fra le province di Vicenza, Verona e Padova, almeno 350 mila persone che vivono in un territorio di 180 chilometri quadrati risultano essere contaminate dai Pfas presenti nelle acque di falda trasferitisi all’interno della catena alimentare e 90 mila di esse necessitano di essere sottoposte a controlli clinici periodici. Secondo i risultati di una ricerca condotta dall’amministrazione della regione Veneto a partire dal 2016 e condotta su un campione di 25 mila persone di età compresa fra i 14 ed i 65 anni residenti nelle aree maggiormente contaminate, ben il 65% del campione ha mostrato nel sangue la presenza di valori di Pfas superiori a quelli ritenuti limite, in alcuni casi anche di decine di volte....

I Pfas, o acidi perfluoroacrilici, sono una famiglia di composti chimici usati prevalentemente in campo industriale in virtù della propria particolare struttura chimica che conferisce loro una eccezionale stabilità termica e una grande resistenza ai principali processi naturali di degradazione. A partire dagli anni 50 sono stati usati nella filiera della concia del pellame, nella produzione di carta e cartone per uso alimentare, nel trattamento dei tappeti, nel rivestimento delle padelle antiaderenti, nella produzione di abbigliamento tecnico e in molti altri campi ancora.

La loro persistenza all’interno dell’ambiente può variare a seconda della classe di prodotto da alcune settimane fino ad oltre 5 anni. I Pfas, qualora non smaltiti correttamente penetrano con facilità all’interno delle falde acquifere, contaminando i terreni agricoli e gli alimenti in essi prodotti. Ad alte concentrazioni risultano altamente tossici non solamente per l’uomo ma per tutti gli organismi viventi, e accumulandosi all’interno del sangue nel corso degli anni senza essere smaltibili dall’organismo possono creare gravi danni anche qualora la contaminazione sia relativamente bassa.

L’esposizione ai Pfas provoca mutazioni ormonali legate alla contaminazione che aumentano il rischio di malattie tiroidee, tumore ai reni e ai testicoli (+30%), cardiopatia ischemica (+21%), morbo di Alzheimer (+14%) e malattie correlate al diabete (+25%). Inoltre i Pfas si legano al recettore per il testosterone, riducendone di oltre il 40% l’attività e la presenza di questi veleni è stata riscontrata all’interno del cordone ombelicale e della placenta delle donne esposte, il che induce a supporre che essi abbiano un ruolo sia nell’incremento delle patologie andrologiche, in primis la sterilità, sia nei problemi di sviluppo intervenuti nei neonati e nei bambini. Recenti studi concernenti l’impatto di tali inquinanti durante il periodo della gravidanza hanno messo in evidenza un aumento del 20% dei casi di preeclampsia, del 52% di diabete gestazionale e del 30% di nascite premature, dimostrando inequivocabilmente come nel corso della fase gestazionale tali veleni si trasferiscano dalla madre al feto.

Oltre alla succitata area del Veneto, dove il fenomeno è emerso in tutta la sua tragicità a partire dal 2013, molte altre zone italiane risultano essere inquinate dai Pfas in maniera preoccupante. Dal territorio del comune di Spinetta Marengo in provincia di Alessandria a quello della zona conciaria di Santa Croce sull’Arno in provincia di Pisa, dai bacini dei fiumi Lambro e Olona in Lombardia fino all’area tessile di Prato in Toscana, per finire con il Polo conciario campano che scarica i propri rifiuti tossici nel fiume Sarno.

Ma tornando al Veneto, dove il problema ha manifestato la propria gravità ormai da molti anni, cosa è stato fatto concretamente per arginarlo e per ridurre il rischio sanitario nei soggetti contaminati?
In verità piuttosto poco. L’azienda Miteni di Trissino, ritenuta la maggiore responsabile del disastro, ha chiuso i battenti dichiarando fallimento, 13 manager sono stati rinviati a giudizio ed è ancora in discussione il procedimento di bonifica dell’intera area aziendale. La falda inquinata è enorme e interessa un territorio vastissimo, facendo sì che una seria operazione di bonifica della stessa richieda dei tempi enormi e dei costi economici elevatissimi che nessun soggetto sembra disposto ad accollarsi.

Sul fronte sanitario oltre al monitoraggio periodico dello stato di salute delle persone contaminate (o meglio di quelle di cui si è a conoscenza) non si è fatto molto altro. Si è tentato con la plasmaferesi, ma l’esperimento è stato abortito a causa delle divergenze mediche fra la Regione ed il Ministero della salute, si sta valutando l’uso di farmaci specifici che abbiano le potenzialità di abbattere i Pfas nel sangue, ma siamo ancora allo stadio delle supposizioni, mentre concretamente i soggetti contaminati sono a tutt’oggi ancora abbandonati a sé stessi.

Come sempre accade nella nostra società basata sulla crescita e sullo sviluppo, quando si tratta d’inquinamento industriale, torna a riproporsi il canonico dualismo fra lavoro e salute. In Veneto come a Taranto, come a Monfalcone, a Casale Monferrato, a Marghera o nelle centinaia di siti contaminati presenti nel nostro Paese la domanda rimane sempre la stessa: ha davvero un senso morire di lavoro o potrebbe essere possibile lavorare e sostentarsi economicamente nel rispetto della nostra salute e di quella di coloro che ci circondano?

Fonte: DolceVita online

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