Fonte Dolcevita online
In
queste ultime settimane si è parlato molto della morte di Stefano
Cucchi, pestato da un gruppo di carabinieri mentre si trovava in
stato di detenzione, e la tragica fine del ragazzo romano è stata
raccontata perfino in un film uscito nelle sale il 12 ottobre scorso.
Così come molto a suo tempo si è parlato della morte di Federico
Aldrovandi durante un fermo di polizia, omicidio per il quale nel
giugno 2012 sono stati condannati in via definitiva i 4 poliziotti
responsabili.
Ma
purtroppo le morti apparentemente inspiegabili di cittadini,
intervenute mentre albergano in carcere o si trovano in stato di
fermo sono davvero tante e la maggior parte di esse non ha
sicuramente avuto l'esposizione mediatica dei casi di Cucchi o di
Aldrovandi....
Un caso
su tutti è quello di Aldo Bianzino che colpisce profondamente sia
per la tragicità della sua fine, viene lasciato morire fra atroci
dolori alla sua seconda notte di detenzione, sia per l'atmosfera
kafkiana che permea l'intera vicenda all'interno della quale ogni
cosa sembra non avere un perché.
Aldo
Bianzino è un falegname (ebanista) che dopo essersi separato dalla
moglie decide di cambiare radicalmente il proprio stile di vita e si
trasferisce a Pietralunga, un piccolo borgo nel verde delle colline
umbre ad un'ora di auto da Perugia, dove acquista un casolare nel
quale inizia a vivere con la nuova compagna Roberta Radici, l'anziana
madre di lei ed il figlioletto Rudra. Aldo è amante delle filosofie
orientali, da sempre pacifista e sperimenta attivamente la
decrescita, vivendo a stretto contatto con la natura e rifuggendo i
ritmi frenetici della città. Ha un orto dove pratica
l'autoproduzione e all'interno di quell'orto coltiva anche una decina
di piante di marijuana, esclusivamente per uso personale, dal momento
che sia lui che la sua compagna sono incensurati ed assolutamente
estranei a qualsiasi giro di spaccio e sarebbe folle anche solo
pensarlo.
Proprio
alla porta del casolare, una sera di ottobre 2007, vengono a bussare
4 poliziotti ed un finanziere, con lo scopo di eseguire una
perquisizione domiciliare che in tutta evidenza era stata ordinata da
un giudice. Nel corso della perquisizione gli agenti rinvengono una
decina di piantine di marijuana e nonostante Aldo insista nel
sostenere che si tratta solamente di "erba" per uso
personale e terapeutico (Roberta è afflitta da un tumore che la
porterà a morire un anno dopo) procedono all'arresto di entrambi i
coniugi, abbandonando in casa il figlioletto Rudra quattordicenne e
l'anziana madre di Roberta 91enne.
Una
volta tradotti nelle patrie galere Aldo e Roberta vengono ovviamente
divisi, uno nell'ala maschile e l'altra in quella femminile e ad
entrambi viene assegnato un avvocato d'ufficio.
Due
giorni dopo l'arresto Roberta viene portata in un ufficio, dove una
persona che si presenta come vice ispettore capo della polizia le
domanda se Aldo abbia problemi di cuore o soffra di svenimenti.
Roberta risponde di no e chiede la ragione di quella domanda, le
viene intimato di essere sincera, perché Aldo lo stanno portando
all'ospedale Silvestrini e possono ancora salvarlo. Lei ribadisce che
Aldo è in perfetta salute e viene riportata in cella.
Tre ore
dopo Roberta viene tradotta nuovamente nello stesso ufficio, dove
alla presenza dell'ispettore capo e di un uomo in borghese che non si
presenta le vengono fatti firmare dei fogli, annunciandole che è
scarcerata. Per prima cosa domanda quando potrà rivedere Aldo, ma la
risposta è agghiacciante: "martedì dopo l'autopsia".
In
realtà Aldo, quando vengono fatte le prime domande a Roberta è già
steso su un tavolo di obitorio. Ha urlato per tutta la notte
domandando aiuto, ma nessuno gli ha prestato soccorso. Solo al
mattino le guardie entrano nella sua cella e trovandolo esanime,
seminudo e con la finestra aperta nonostante il freddo, praticano un
tentativo di rianimazione, ma non lì in cella, bensì dinanzi
all'infermeria la cui porta rimane inspiegabilmente chiusa.
Secondo
le indagini condotte dal medico legale nominato dall'ex moglie di
Aldo Gioia Toniolo, intervenuta immediatamente al fianco di Roberta
nella ricerca della verità su quanto accaduto, il corpo presenta
ematomi alla testa, evidenti danni al fegato e alla milza e alcune
costole rotte. Un quadro del tutto incompatibile con la tesi
dell'aneurisma che è stata scelta come causa ufficiale della morte.
Ma pittosto che secondo il medico legale avvalora l'ipotesi di un
pestaggio messo in atto con tecniche militari utilizzate per
danneggiare gli organi vitali senza lasciare traccia.
Nonostante
ciò il pm Giuseppe Pietrazzini, lo stesso magistrato che aveva
ordinato la perquisizione nel casolare, ora incaricato dell'indagine
per omicidio, archivia l'inchiesta due volte in quanto a suo dire le
indagini non avrebbero fornito prove di aggressioni a Bianzino, né
alcuna ragione perché si potessero verificare. E quando nel 2015 si
arriva ad una sentenza definitiva si conclude che Aldo è morto per
cause naturali in seguito ad un aneurisma, mentre l'unica condanna
(ad un anno di reclusione) riguarda la guardia carceraria Gianluca
Cantoro, colpevole di omissione di soccorso, non essendo intervenuto
nel corso della notte alle grida di Aldo.
Oggi il
figlioletto Rudra, ormai ventiquatrenne, che non ha mai smesso di
cercare la verità sulla tragica fine di suo padre, sta chiedendo a
gran voce la riapertura delle indagini ed i suoi legali stanno agendo
in questo senso sulla base di nuove importanti analisi e rivelazioni
medico legali. La speranza naturalmente è che ci riesca, non
solamente nel suo interesse e nella memoria di Aldo, ma anche in
quello delle stesse forze dell'ordine che dovrebbero in primo luogo
tutelare l'incolumità dei cittadini e non certo metterne a
repentaglio la vita nel buio di una prigione.
Ma
sullo sfondo di questa drammatica vicenda continua ad aleggiare
un'atmosfera da romanzo kafkiano, con troppi punti oscuri e troppe
domande senza risposta.
Perché
mai un magistrato avrebbe ordinato la perquisizione di un casolare di
campagna, dove vivevano due coniugi incensurati dediti alla
decrescita e all'autoproduzione e non certo legati a qualche clan
malavitoso o allo spaccio di droga?
Perché
mai due coniugi incensurati sono stati immediatamente incarcerati con
la sola colpa di coltivare nel proprio orto una decina di piante di
marijuana ad evidente uso personale e terapeutico?
Perché
mai Aldo, un uomo pacifico e tranquillo, in sede d'interrogatorio o
chissà in quale altra circostanza sarebbe stato pestato a morte con
tecniche militari degne di Guantanamo?
Perché
infine l'indagine sulla morte di Aldo è stata affidata allo stesso
magistrato che già aveva ordinato quella curiosa perquisizione,
concedendogli d'ignorare le drammatiche perizie medico legali e
concludere che si trattasse di una morte per cause naturali, pur
contro ogni evidenza?
La
speranza naturalmente è che una volta riaperta l'indagine almeno
qualcuna di queste domande possa finalmente trovare una risposta,
perché le forze dell'ordine e la giustizia dovrebbero far paura ai
"cattivi" ma continuare a rappresentare un punto fermo e
non certo un elemento di terrore per le persone perbene di cui Aldo
senza ombra di dubbio faceva parte a pieno titolo.
4 commenti:
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