venerdì 30 gennaio 2009

Quando l'acqua diventa una merce

Marco Cedolin
Pubblicato su Terranauta

La sempre più spinta privatizzazione dei servizi pubblici, fortemente voluta dalla politica in maniera totalmente bipartisan nel corso dell’ultimo decennio, parallelamente alla trasformazione delle vecchie “municipalizzate” in società per azioni a capitale misto pubblico/privato che vengono quotate in borsa e si pongono sul mercato costruendo profitto attraverso la gestione dei servizi primari destinati ai cittadini (smaltimento rifiuti, acqua, distribuzione del gas, trasporti) sta iniziando a produrre risultati catastrofici in termine di qualità dei servizi ed incremento del costo delle tariffe, ormai sempre più slegate da qualsiasi logica volta a salvaguardare gli interessi della collettività.
Emblematico a questo riguardo è sicuramente quanto accaduto ad Aprilia nel 2005, dove la gestione della distribuzione dell’acqua da parte della società Acqualatina, partecipata al 46,5% dalla multinazionale francese Veolia, ha comportato incrementi delle bollette nell’ordine del 300%, determinando una vera e propria sollevazione popolare da parte di oltre 4000 famiglie che si rifiutano di fare fronte ad un salasso di questo genere.

Forti preoccupazioni a questo riguardo stanno suscitando le novità in tema di liberalizzazioni dei servizi pubblici, introdotte dal decreto Tremonti che mira a liberalizzare la gestione dei servizi pubblici locali, affidandoli a società private o pubblico/private all’interno delle quali il socio privato non detenga una quota inferiore al 30%. Particolare apprensione è stata determinata dall’approvazione, avvenuta lo scorso 5 agosto, dell’articolo 23 bis del decreto legge 112 che di fatto sottomette alle regole di mercato la gestione dei servizi idrici, snaturando la figura stessa dei “Comuni” che da enti deputati ad operare nell’interesse collettivo si trasformano in soggetti finalizzati alla costruzione del profitto proprio attraverso la gestione privatistica di quei beni, come l’acqua, che dovrebbero essere patrimonio di tutti. Il provvedimento in questione si pone oltretutto in contrasto con il codice civile, laddove lo stesso afferma che “i beni demaniali sono sottoposti ad un particolare regime giuridico, che li pone fuori commercio, essi sono inalienabili e imprescrittibili: non se ne può acquistare la proprietà a nessun titolo, nemmeno per usucapione.I beni demaniali sono infruttiferi: non procurano entrate, se non occasionalmente, quando siano dati in concessione”. Dal momento che gli acquedotti rientrano nel novero dei beni demaniali sarebbe alquanto azzardato giustificare come “occasionale” la loro concessione a delle società per azioni che dalla gestione di un bene inalienabile come l’acqua ricaveranno profitti continuativi.

Il decreto Tremonti rappresenta solamente il terminale di tutta una lunga serie di leggi e provvedimenti che a partire dagli anni 90 hanno progressivamente svenduto il patrimonio pubblico, contribuendo a creare monopoli privati o pubblico/privati che gestiscono i servizi primari per i cittadini unicamente nell’ottica della massimizzazione del profitto.
Oggi in Italia le condizioni della rete idrica risultano essere estremamente precarie a causa della scarsità d’investimenti pubblici e della loro cattiva gestione, facendo si che quasi un terzo dell’acqua incanalata nelle tubature si disperda prima di arrivare nelle abitazioni. Una situazione che potrebbe per molti versi favorire chiunque intenda subentrare al pubblico nella gestione degli acquedotti, mirando ad ottenere il controllo del business relativo alla distribuzione della “merce acqua” che costituisce un obiettivo assai ambito in quanto potenzialmente in grado di generare enormi profitti.

La spesa degli italiani per l’acqua, attualmente in media circa 250 euro a famiglia (ma la distribuzione è assai irregolare e si va da un minimo di 81 euro ad un massimo di 587 euro) risulta essere ancora generalmente sostenibile, ma negli ultimi 10 anni le bollette sono incrementate mediamente del 61% e inoltre un italiano su tre è costretto a pagare una bolletta irregolare (sentenza 335 del 10 ottobre 2008 della corte Costituzionale) in quanto versa contributi per depuratori che non esistono o non sono funzionanti.L’apertura ai privati e la volontà di trasformare il bene acqua in una merce che sarà venduta a caro prezzo da multinazionali come Veolia, già specializzate nel settore, o dalle multiutility quotate in borsa come A2A ed Hera che oggi accumulano fortune miliardarie attraverso l'incenerimento dei rifiuti, non induce purtroppo ad essere ottimisti. Anche la voce “acqua” sarà infatti destinata fra qualche anno ad incidere in maniera significativa (e forse insostenibile) all’interno dei sempre più scarni bilanci familiari degli italiani.

lunedì 26 gennaio 2009

Il grande Zelig

Marco Cedolin

La politica durante queste prime settimane dell’anno sembra somigliare sempre più ad una rappresentazione di cabaret, dove ogni problema, anche il più serio, tende a perdere la propria consistenza finendo per manifestarsi sotto forma di celia, di boutade, di battuta di spirito spesso di cattivo gusto. Alcune volte si tratta di un’ambizione “umoristica” perseguita dagli autori, in altri casi l’effetto “comico” nasce dalla velleità di arrampicarsi sugli specchi ostentando la massima serietà, spesso semplicemente il tutto deriva dal superamento inconscio di ogni senso del ridicolo.

Silvio Berlusconi la settimana scorsa, in riferimento alla crisi economica e alla drammatica (non esiste incubo peggiore di una società fondata sulla crescita che si manifesta incapace di crescere) recessione che stando alle stime più ottimistiche determinerà la perdita di 2 punti di Pil durante l’anno in corso, ha risposto che la cosa non lo preoccupa affatto. Non si tratta assolutamente di un dramma, ha detto con il piglio del consumato economista. Significa che torneremo a vivere nella situazione di un paio di anni fa, quando il Pil era di 2 punti inferiore ad oggi, e non si stava comunque peggio. In molti continuano a domandarsi se le sue parole potessero essere prodromiche di un ripensamento riguardo all’opportunità di continuare a perseguire un modello di sviluppo basato sulla crescita, o più semplicemente risultassero indicative di lacune mai colmate concernenti le nozioni elementari di economia.

Il governo, Confindustria, Cisl e Uil hanno firmato l’accordo sui contratti di lavoro, manifestando soddisfazione per l’intesa raggiunta, nonostante la Cgil (il più grande sindacato italiano) non lo abbia sottoscritto. Un po’ come manifestare giubilo per il raggiungimento di un accordo fra le squadre di serie A, al quale Milan, Inter e Juventus si sono manifestate contrarie.

Tutta l’informazione e buona parte degli uomini politici hanno “tuonato” contro gli imputati delle nuove BR (quelle nuovissime che non hanno fatto attentati ma secondo l’accusa progettarono di farli) che avrebbero violentemente minacciato in aula il giuslavorista Pietro Ichino. Le frasi incriminate “siete una banda di sfruttatori e “sei un massacratore di operai” rientrano forse nel novero degli insulti (quanto meritati o meno giudicate voi) ma non certo in quello delle violente minacce, che giornalisti e politici hanno creduto bene d’inventare a beneficio del proprio Zelig personale.

I vertici sindacali, posti di fronte al crollo mondiale delle vendite di automobili, determinato non solo dalla crisi economica ma anche da un’evidente saturazione del mercato destinata a protrarsi almeno a medio termine, invocano il governo affinché destini le risorse sottratte ai contribuenti per finanziare a fondo perduto l’industria privata. Nella fattispecie la Fiat che da sempre costruisce il proprio profitto lautamente sovvenzionata dal denaro pubblico. Nessuna proposta concernente un’eventuale riconversione degli stabilimenti non ancora delocalizzati (magari nella produzione di micro-cogeneratori per l’autoproduzione energetica domestica), nessuna ipotesi finalizzata alla creazione attraverso il denaro pubblico di posti di lavoro alternativi ad un’esperienza industriale ormai anacronistica, nessuna intenzione di guardare al futuro, ma solo il tentativo di perpetuare un passato moribondo totalmente disancorato dalla realtà.

Il ministro dell’Interno Maroni, in risposta all’onda emotiva ingenerata dai drammatici casi di stupro e violenza accaduti negli scorsi giorni, si è detto disposto ad aumentare di 10 volte la presenza dell'esercito nelle città, fino a collocare 30.000 soldati a protezione dell’ordine pubblico, in ossequio all’equazione ancora tutta da dimostrare: più soldati, uguale meno violenza.
Silvio Berlusconi, tornando ieri sull’argomento in quel di Sassari, ha pensato bene di ironizzare sulla questione e dimostrandosi molto più a suo agio nelle vesti di “uomo di cabaret” piuttosto che di economista ha affermato che a bloccare gli stupri “non ce la faremmo mai, poiché servono tanti soldati quante sono le belle ragazze italiane”. Posto di fronte alla veemente reazione dell’opposizione ombra e di quanti non ritenevano opportuno scherzare su accadimenti di questa gravità, si è poi indispettito per il mancato applauso, dicendosi deluso del fatto che in molti non hanno compreso come si trattasse di un complimento alle ragazze italiane.

Il grande Zelig è forse lo strumento migliore per esorcizzare le problematiche reali, annegandole nella finzione, fra le pieghe di un teatro dell’assurdo che le nasconda alla vista. In fondo tutto ciò che non si vede (come le nanopolveri che escono dagli inceneritori) non viene percepito ed è più facile far finta che non esista, almeno fino a quando non si spengono le luci del palcoscenico.

martedì 20 gennaio 2009

NO TAV in Spagna come in Val di Susa



Marco Cedolin

Anche la costruzione dell’alta velocità spagnola, impropriamente magnificata durante una puntata di Report nell’aprile dello scorso anno, sta incontrando grande opposizione fra le comunità locali dei cittadini iberici che protestano in maniera veemente contro una grande opera faraonica di dubbia utilità, che farà scempio del territorio prosciugando le falde acquifere, inquinando i terreni e pregiudicando gli equilibri ambientali. Anche in Spagna, come già accaduto in Val di Susa, la risposta dello Stato, incapace di produrre argomentazioni concrete che dimostrino l’utilità dell’opera, continua a rivelarsi unicamente di carattere repressivo e consiste nel pestaggio selvaggio dei manifestanti al fine di indurli al silenzio.

Sabato 17 gennaio ad Urbina, a pochi km da Gasteiz nella regione basca, alcune migliaia di cittadini contrari alla costruzione del TAV, al termine di un corteo di protesta, hanno tentato pacificamente di occupare i terreni che sono oggetto dei cantieri per la costruzione dell’opera, con l’intento di recuperarli ad un uso socialmente compatibile.
La risposta delle forze dell’ordine della polizia autonoma basca, accorse in massa, è stata perentoria e di una violenza inaudita, facendo oggetto i manifestanti oltre che di cariche e pestaggi selvaggi (tutto il campionario già espresso nel 2005 dagli uomini di Pisanu in quel di Venaus) anche dell’uso di proiettili di gomma e del tentativo d’investimento con l’ausilio dei mezzi blindati. Come se non bastasse, dopo la decisione dei manifestanti di abbandonare i terreni per evitare che la situazione potesse degenerare ulteriormente, le forze dell’ordine hanno scatenato una vera e propria “caccia all’uomo” protrattasi per ore, durante la quale sono penetrate perfino all’interno delle abitazioni e del municipio della cittadina. Il bilancio finale di questa giornata di follia parla di oltre 100 feriti e 8 manifestanti arrestati, ma occorre tenere conto del fatto che molti feriti non si sono recati presso le ambulanze, dal momento che queste erano presidiate dalla polizia decisa a trarle in arresto.

Come spesso accade in questi casi, i responsabili delle forze dell’ordine e l’informazione spagnola hanno tentato di giustificare l’operato degli agenti lamentando un mai avvenuto lancio di pietre da parte dei manifestanti che sono stati dipinti come violenti e facinorosi, nonostante due reporter del giornale spagnolo “El Mundo” (quotidiano di centrodestra) presenti sul posto, avessero confermato il carattere assolutamente pacifico della manifestazione.

In Italia naturalmente i grandi media si sono guardati bene dall’inserire la notizia all’interno dei propri palinsesti, preferendo disquisire riguardo alla casa del grande fratello, alla miliardaria cessione di Kakà, al decalogo della chiesa su come usare facebook e alle mirabolanti funzioni dei nuovi cellulari. Gli italiani, tranne quell’esigua minoranza che raccoglie informazioni su internet, continueranno pertanto a pensare che il TAV in Spagna rende tutti felici (perfino le trasmissioni più “trasgressive” come Report ne hanno dato conferma) e solamente uno sparuto gruppo di valsusini contrari al progresso continua ad opporsi al “treno del futuro” che prosciuga le montagne e le finanze, per arricchire le banche, l’industria del cemento e quella delle costruzioni.

lunedì 19 gennaio 2009

Tirrenia sulla strada di Alitalia

Marco Cedolin

Un interessante articolo d'inchiesta a firma Ferruccio Sansa, comparso su La Stampa in questi giorni, offre uno spaccato quanto mai allarmante della compagnia pubblica di navigazione Tirrenia, guidata da ormai 25 anni dall’immarcescibile Franco Pecorini, che è riuscito nella “mirabolante” impresa di rimanere fino ad oggi saldamente al comando, nonostante l’avvicendarsi di ben 18 governi.
La compagnia pubblica che occupa attualmente circa 3000 dipendenti (2400 addetti alla navigazione e 600 con compiti amministrativi) si ritrova ormai sull’orlo del fallimento, con oltre 800 milioni di euro di debito ed una flotta che secondo le valutazioni di Credit Suisse non varrebbe più di 650 milioni di euro.

Come già accaduto ad Alitalia ed in parte anche alle Ferrovie di Stato, la disastrosa situazione economica attuale è il risultato di una lunga serie di errori, investimenti sbagliati e scelte strategiche prive di logica, portate avanti per decenni inseguendo interessi molto lontani da quelli dei contribuenti che hanno finanziato le imprese pubbliche. Un caso su tutti, come testimoniato nell’articolo di Sansa, riguarda i “traghetti veloci” acquistati a “peso d’oro” nell’intento di creare commesse presso Fincantieri e poi rivelatisi praticamente inutilizzabili a causa dell’altissimo consumo di carburante che avrebbe reso il loro uso assolutamente antieconomico.
Il traghetto superveloce Taurus, entrato in servizio nel 1998, dotato di tutti i confort, nonché di altissima tecnologia e accreditato di 40 nodi di velocità è già diventato un pezzo da museo. La nave giace infatti nel porto di Genova fra i traghetti in demolizione, con 4 uomini di equipaggio a bordo che giorno dopo giorno non possono fare altro che constatare l’avanzata della ruggine e il progressivo disfacimento di quello che solo una decina di anni fa era stato presentato come il fiore all’occhiello dell’intera flotta. Sorte non molto differente è toccata alle tre navi gemelle, Aries, Scorpio e Capricorn, ormeggiate ed inutilizzate per quasi tutto l’anno se si eccettua qualche corsa durante i mesi estivi. Mentre i traghetti veloci che li hanno preceduti, Scatto e Guizzo, varati all’inizio degli anni 90 (non negli anni 70) sono praticamente in disarmo.

Ancora una volta, come già per Alitalia, l’unica “ricetta” presa in considerazione dalla politica e dai sindacati per fare fronte alla situazione, consiste nella privatizzazione della compagnia, per favorire la quale il governo ha già stanziato 65 milioni di euro l’anno per il triennio 2009/2011 all’interno del pacchetto anticrisi approvato a fine novembre. Privatizzazione che in Italia significa da sempre svendita a prezzi da saldo di fine stagione agli “imprenditori amici” che una volta appropriatisi dell’azienda attraverso un esborso monetario ridicolo, provvederanno ad eliminare almeno la metà dei dipendenti, dismettendo tutte le rotte meno redditizie ( se non saranno state preventivamente affidate alle regioni) e mantenendo in essere solamente quelle più remunerative che godranno di un notevole incremento delle tariffe. Per i cittadini, come sempre in questi casi, il tutto si tradurrà in una nuova emorragia occupazionale, sommata ad una diminuzione dei servizi.
A traghettare (è proprio il caso di dirlo) Tirrenia verso la svendita sarà proprio quel Franco Pecorini, stimato oltre che dalla politica bipartisan anche dal Vaticano fino al punto di nominarlo Gentiluomo di Sua Santità, la cui cattiva amministrazione del denaro dei contribuenti ha determinato la disastrosa situazione attuale. Anche in questo caso ovviamente nulla di nuovo, dal momento che da sempre in Italia i dirigenti che hanno condotto le aziende pubbliche al fallimento, sono stati lautamente ricompensati per avere espletato al meglio il proprio compito che consisteva proprio nel condurle al disastro con buona pace dell’interesse pubblico.

giovedì 15 gennaio 2009

Gli strumenti del massacro



Marco Cedolin

Pubblicato su Terranauta

Fra le notizie più allarmanti che giungono da Gaza, dove da oltre 2 settimane l’esercito israeliano sta portando avanti il sistematico massacro del popolo palestinese, una delle più spaventose è quella che riguarda l’utilizzo di armi di distruzione di massa, fra le quali bombe al fosforo bianco e mini atomiche “tascabili” meglio conosciute come “Dime”.
L’argomento è di dominio pubblico da molti giorni, ma la censura mediatica lo ha fino ad oggi relegato all’informazione sul web. Telegiornali e grandi quotidiani (con l’eccezione dell’Unità che ha dedicato un articolo alla questione) si ostinano ad ignorare colpevolmente la notizia, prodigandosi in compenso nella descrizione particolareggiata dei “terribili” razzi Kassam che Hamas continuerebbe a lanciare in quantità sempre crescente nonché a distanze sempre maggiori, contravvenendo perfino alle leggi della fisica.

Le bombe al fosforo bianco, che distruggono completamente il tessuto organico delle vittime, sono vietate dal protocollo dell’ONU per la messa al bando delle armi non convenzionali, ma Israele è fra i paesi che non l’hanno sottoscritto. Israele è in compenso fra i firmatari della Convenzione di Ginevra che vieta l’utilizzo di tali bombe contro la popolazione civile ed in aree densamente popolate, anche qualora vengano utilizzate esclusivamente per realizzare una cortina fumogena a protezione delle truppe, come fonti israeliane sostengono essere accaduto. In sostanza ci troviamo di fronte ad un pesante crimine di guerra che potrebbe potenzialmente portare Israele a risponderne davanti al tribunale dell’Aja, anche se sappiamo bene che non accadrà. Non accadrà poiché la protezione di cui gode lo stato israeliano a livello internazionale lo pone al riparo da qualsiasi rischio, non certo perché manchino gli elementi che dimostrano il massiccio uso delle bombe al fosforo bianco avvenuto in questi giorni su Gaza.
Sono numerosissime infatti le foto di bimbi i cui resti dimostrano in maniera inequivocabile gli effetti del fosforo bianco, così come numerose sono le foto ed i testimoni oculari che documentano il lancio delle bombe al fosforo, così come non mancano gli operatori sanitari che si sono trovati alle prese con morti e feriti colpiti dai ferali ordigni.

Se possibile ancora più raccapriccianti risultano essere le testimonianze di alcuni medici norvegesi presenti negli ospedali di Gaza, che analizzando le ferite presenti su un certo numero di cadaveri hanno riscontrato il probabile uso delle bombe “Dime”. Si tratta di vere e proprie “atomiche tascabili” create dall’aviazione statunitense per “limitare i danni collaterali” che causano un’esplosione radioattiva di breve raggio, in grado di rilasciare microschegge che tranciano i tessuti molli e oltre a causare la morte dei malcapitati s’innescano nei tessuti dei feriti, provocando il cancro con il passare degli anni. Naturalmente si tratta di ordigni “sperimentali” che pertanto non sono ancora inseriti negli elenchi delle armi proibite.
Gaza dunque somiglia sempre più ad una sorta di teatro per la sperimentazione dei massacri, strapieno di bambini destinati al ruolo di cavie sacrificali. Resta da domandarsi fino a quando la società Occidentale, il cui crollo verticale sotto il profilo del rispetto dei diritti umani è ormai paragonabile a quello finanziario, intende aspirare a sopravvivere a sé stessa, e si tratta di un mistero dalla difficilissima lettura.

lunedì 12 gennaio 2009

La "casta" del gas

Marco Cedolin

In Italia esistono giornalisti “famosi” che pur essendo diventati tali dopo avere scritto libri ed articoli di pesante denuncia del “sistema”, continuano allegramente a fare parte della sua elite, scrivendo sulle pagine dei quotidiani più importanti e comparendo nelle trasmissioni in TV con la stessa frequenza di quanto accade agli uomini politici di grido. Giornalisti che con il loro lavoro di “denuncia” del sistema, prodotto con l’ausilio dei finanziamenti che il sistema stesso ha messo loro a disposizione, sono riusciti a ritagliarsi una posizione di favore all’interno della quale possono godere di grande credibilità presso l’opinione pubblica. Credibilità che una volta conquistata potrà essere da loro capitalizzata rendendo utili favori al “deprecabile” sistema che li nutre e li foraggia.

E’ il caso del buon Gian Antonio Stella, nato nel paese che fu di Eleonora Duse e divenuto più che famoso nel 2007 dopo la pubblicazione del best seller “La Casta”, al quale ha fatto seguito l’altrettanto mordace “La deriva” dello scorso anno. Stella, grande estimatore della crescita e dello sviluppo, come si può evincere da molti suoi scritti, ha dedicato una “marchetta” alla casta del gas, quella costituita da ENI, Edison, Enel, Hera, Exxon Mobil, Eon, Gas Natural, Erg, Gaz de France, partorendo un curioso articolo titolato “Il NO ai rigassificatori: bocciano i progetti e stiamo al gelo” che ha trovato pubblicazione sabato scorso sulle pagine del Corriere della Sera.

Nel suo pezzo l’ardimentoso Stella divide gli ambientalisti “buoni” (quelli legati a Legambiente
che contestano il nucleare ma apprezzano i rigassificatori e gli inceneritori) da quelli “cattivi” (che si oppongono a tutti gli scempi e le nocività ambientali), dedicando a questi ultimi alcune righe cariche di disappunto ed ironia. Mette alla berlina i livornesi che si battono contro la costruzione del rigassificatore off shore, ironizzando sul rischio derivante da un’eventuale esplosione dell’impianto, arrivando perfino a definirli “ayatollah ecologisti toscani”. Irride gli ambientalisti di Panigaglia, vittime a suo dire dell’effetto “nimby”, contesta i cittadini che si oppongono (senza che lui ne comprenda il perché) al rigassificatore di Brindisi e lancia i propri strali contro coloro (dalla sinistra radicale, a Sgarbi, fino al centrodestra) che stanno impedendo la costruzione del rigassificatore di Porto Empedocle in Sicilia, con giustificazioni di carattere archeologico e paesaggistico che Stella giudica incomprensibili.

Se tanto livore nei confronti degli ambientalisti, quelli non allineati con la lobby del cemento di Ermete Realacci di cui Stella nel pezzo si manifesta estimatore, non può mancare di lasciare basito chiunque conosca appena un poco in profondità le questioni ambientali, ancora più stupore provocano gli argomenti che il giornalista porta a giustificazione del livore stesso.
Stella nel suo articolo tenta infatti d’indurre il lettore a credere che a causa della mancanza dei rigassificatori l’Italia rischi seriamente di rimanere al gelo per mancanza di gas, nel caso di eventuali problemi sulla rete dei gasdotti, arrivando a vaticinare di abitazioni congelate, fabbriche bloccate e trasporti paralizzati. Un quadretto degno dei migliori film “catastrofici” a stelle e strisce, tanto più drammatico in un paese come l’Italia che, a suo dire, avrebbe abbandonato il nucleare, senza imboccare le strade alternative delle energie rinnovabili, all’interno delle quali il buon Stella annovera anche i "Termovalorizzatori" dimostrando in maniera inequivocabile come stia sproloquiando riguardo a cose di cui non ha la benché minima conoscenza.

Pur incorrendo nel rischio di rovinare una bella “marchetta”, credo sia doveroso tranquillizzare gli italiani, riportando il piano del discorso dal fantasy alla realtà. Nonostante sia costretta ad importare dall’estero buona parte del gas che consuma, l’Italia gode infatti di una rete di gasdotti (buona parte dei quali già in fase di potenziamento quando non di costruzione ex novo) in grado di consentirle l’approvvigionamento di quantitativi di gas notevolmente superiori al proprio fabbisogno attuale e futuribile. Basti pensare che è in dirittura di arrivo il potenziamento del gasdotto algerino Ttpc che trasporterà 6,5 miliardi di metri cubi di gas in più l’anno, l’ENI ha già iniziato il potenziamento del gasdotto Tag che trasporta in Austria il metano estratto dai giacimenti siberiani, per consentire il trasporto aggiuntivo di 3,2 miliardi di metri cubi annui. Entro la fine del 2012 la società Galsi s.p.a. della quale fanno parte Edison, Enel ed Hera, dovrebbe terminare la costruzione di una nuova pipeline di 2280 km che via Sardegna trasporterà annualmente 8,5 miliardi di metri cubi di metano aggiuntivo dall’Algeria a Piombino, in Toscana, il cui tratto off shore risulterà il più profondo al mondo raggiungendo la profondità di 2.880 metri. Nel corso del 2013 inoltre dovrebbe essere inaugurato il gasdotto South Stream che attraverso la Grecia trasporterà il gas russo fino in Puglia.
I rigassificatori in progetto e quelli esistenti, Panigaglia e Rovigo costato 2 miliardi di euro e posizionato al largo della foce del PO, tanto cari a Gian Antonio Stella, non serviranno al nostro Paese per sfuggire al destino di una catastrofe incombente fatta di gelo e galaverna. Semplicemente saranno destinati a trasformare l’Italia in una sorta di hub energetico attraverso il quale la “casta” dell’energia a braccetto con quella della politica (che Stella ama fustigare nei suoi best seller) potrà accumulare profitti miliardari, lasciando il conto da pagare ai contribuenti e all’ambiente. Quell’ambiente la cui salute, a dispetto dei giornalisti e delle loro marchette, non si divide fra buoni e cattivi ma continua a rimanere un qualcosa di oggettivo ed incontrovertibile.

mercoledì 7 gennaio 2009

Nubi brune e mutamenti climatici

Marco Cedolin
Pubblicato su Terranauta

Troppo spesso quando viene affrontato l’argomento dei mutamenti climatici si percepisce l’impressione che tutta l’attenzione venga erroneamente focalizzata esclusivamente sulle emissioni di anidride carbonica, quasi l’inquinamento da CO2 fosse l’unico responsabile degli stravolgimenti climatici con i quali siamo e saremo sempre più costretti a confrontarci.
Oltre a quantitativi abnormi di anidride carbonica, la “megamacchina” che chiamiamo progresso produce invece un’enorme sequela di veleni che in varia misura contribuiscono, sia direttamente sia indirettamente, ad aggravare i mutamenti climatici attualmente in atto.

Molto interessanti a questo riguardo sono i risultati di uno studio condotto nell’ambito del programma per l’ambiente dell’ONU, concernenti gli effetti delle nubi brune atmosferiche.
Le nubi brune, presenti secondo lo studio soprattutto in Asia, ma anche in Nord America ed in Europa, Pianura Padana compresa, sono sostanzialmente enormi nuvole costituite dalla combustione delle energie fossili, che oscurano il cielo delle grandi metropoli per lunghi periodi dell’anno. Queste nubi, generate dall’attività umana, sono cariche di particolato e particelle inquinanti di ogni tipo e arrivano in alcuni casi a raggiungere i 3 km di spessore, determinando una serie di conseguenze estremamente rilevanti a livello climatico.

Secondo i risultati dello studio, tali nubi oltre ad avere un impatto pesante sulla qualità dell’aria e sull’agricoltura, aumentando i rischi sanitari ed alimentari per 3 miliardi di persone nel mondo, costituiscono una sorta di scudo che riflette la luce solare, diminuendo la quantità delle piogge e contribuendo al riscaldamento dell’atmosfera, mentre al contrario il suolo tende a raffreddarsi in virtù del diminuito irraggiamento solare.
In alcune grandi metropoli come Pechino, Shanghai e New Delhi dal 1970 ad oggi si è riscontrato un calo della luminosità superiore al 20%. Nel sud est asiatico dal 1950 ad oggi le precipitazioni monsoniche sono diminuite del 7%, mentre risultano raddoppiati i fenomeni meteorologici estremi. Più in generale la presenza delle nubi brune sembra incidere pesantemente determinando anomali mutamenti delle temperature e del regime delle precipitazioni che sommati alle conseguenze dell’accumulo di CO2 in atmosfera saranno in grado di produrre effetti potenzialmente catastrofici, la cui portata allo stato attuale delle ricerche non risulta ancora definita.

Se le dinamiche d’interazione fra i vari elementi che ingenerano i mutamenti climatici non sono ancora state sviscerate nella loro interezza (ammesso che possano esserlo in futuro) appare invece di una chiarezza adamantina l’individuazione dell’unica strada che può consentirci di rimediare (nel caso ci sia ancora il tempo per farlo) alla catastrofe imminente. Diminuire in maniera corposa l’incidenza della tecnosfera sulla biosfera (anziché incrementarla come stiamo continuando a fare), tentando di recuperare, almeno in parte, gli equilibri che abbiamo perduto e stiamo perdendo e imponendoci di preservare almeno quella parte di ambiente che non è ancora stato devastato in maniera irreversibile.