mercoledì 20 maggio 2009

Abruzzo: riserve di indigeni nelle "new town"


Nicoletta Forcheri
Al momento di pubblicare la notizia di Marco Cedolin, apprendo dai TG che stanno effettuando gli espropri di terreni agricoli nelle periferie dei borghi terremotati di Abruzzo. Ogni qualvolta che sento la parola “esproprio”, trasecolo, un fremito mi percorre all’idea delle sofferenze di chi viene strappato dalla propria terra, dal suo orticello, dal suo pezzo di identità, come se gli strappassero un pezzo di sé, e non posso non pensare alla violenza inaudita inferta ai palestinesi, tutte le volte che si sradicano i loro ulivi, piante secolari essenziali per la loro identità culturale.

I paesaggi e i borghi fanno parte della nostra identità, vengono introiettati nella nostra coscienza, e contengono riferimenti identitari, punti di ristoro, momenti di tregua, purtroppo anche disturbi laddove recano ferite aperte, ma più spesso ricordi, cui sono legate le nostre personali emozioni, o quando assurgono valori simbolici, i nostri sentimenti comuni di appartenenza di popolo, di paese, di tribù. I paesaggi e i territori, sui quali hanno sudato i nostri avi per renderli coltivabili, per arrestarne gli smottamenti con terrazze, per ricostruirli dopo i terremoti, trasudano di energia atavica che ci racconta e ci nutre - ci tramanda - per chi volesse recepirla, la nostra stessa storia, da dove noi veniamo. Non solo, essi ci indicano anche la strada, il filo di arianna, la bussola per orientarci in un futuro che ci invade, violento, come un mare in burrasca. In quei pezzi di paesaggio intonsi risiede la chiave, lì possiamo dipanare la matassa, lì possiamo cogliere tesori di sapere, lì giacciono risorse per nutrirci, lì il nostro specchio per sapere chi siamo, lì la nostra strada per sapere dove e come ci andiamo. In quelle magiche intricate piantine dei nostri borghi, e delle nostre città storiche, tutta l’arte di vivere e di convivere dei nostri nonni, la loro stupenda funzionalità, la loro semplice ingeniosità. Lì tutte le nostre ricchezze e i nostri ori - che altri non ce ne sono.

Quando sento quella infausta parola, non riesco ad allontare dalla mente quella mia persistente visione di un popolo, il nostro, spostato in campi profughi, container, camper o in squallide periferie di palazzoni tipo HLM, con strade larghe, private di verde, di negozi, di piazzetta, di fontana, di sagrato della chiesa, private del buio e delle stelle. Private del cielo blu. Cielo grigio di scie chimiche. Telecamere in ogni angolo. Privacy come gruviera. Nessun salotto cittadino. Nessun giardino. Nessuna fierezza. Solo una squallida prigione di cemento dove l’umano diventa alieno, si estranea, e il tessuto sociale si sfalda. Tutti debitori, tutti incasellati - persino le aiuole - in squallide statistiche attuariali.
E non posso non chiedermi come mai non sia più affermato chiaro l’impegno di ristrutturare tutte le case dei centri storici. E non posso non pensare alla colonizzazione dei centri storici e alla cessione di interi borghi a qualche riccastro saccheggiatore del pianeta o a qualche tour operator - come sta avvenendo in tutta Italia. Grazie allo sfratto degli indigeni nelle nuove riserve di indiani chiamate “new town”.

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